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#2 Comunicare: L'invenzione della tradizione culinaria

Siamo portati a pensare ai piatti della tradizione come ricette antichissime, arrivate fino ai nostri giorni immutate. Eppure sono “invenzione” recente. Tantissimi prodotti tipici sono frutto di un accurato rebranding, con immagini che evocano un grande passato o con richiami a miti e leggende.

Come una buona comunicazione ha cambiato la nostra cucina

Consumare un pasto è un’azione che compiamo quotidianamente, talvolta senza neppure la piena consapevolezza di quello che abbiamo nel piatto.
Si può affermare che il cibo sia legato a doppio filo a temi importanti e complessi che influiscono su vari aspetti, come la salute, i mercati e le produzioni alimentari.
In aggiunta, gli usi e costumi attorno alla tavola forniscono numerose informazioni riguardo alle abitudini di certi popoli, a uno specifico contesto e al periodo storico; spesso questi elementi sono presi in considerazione per lo studio di tutti gli aspetti sociali del nostro vivere in collettività.

Perché tu introduca qualcosa nella tua testa e nel tuo cuore, è necessario che tu abbia messo qualcosa nello stomaco”, afferma il medico e fisiologo tedesco Jakob Moleschott nel suo “Trattato sull’alimentazione”, testo ripreso e reso celebre dal filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, a sua volta autore della celebre frase “siamo quello che mangiamo”.
È chiaro che già nell’Ottocento si pone attenzione alle conseguenze sociali e culturali del cibo, visto in questo caso come origine della società e del pensiero.
Oltre alle implicazioni filosofiche, i due studiosi aprono così la strada per la ricerca sulla corretta nutrizione.

Secondo la sociologia, il cibo ha risvolti diversi. In particolare, contribuisce al rafforzamento dei legami affettivi con le persone poiché rappresenta un modo per relazionarsi col prossimo, che tramite la convivialità del pasto incentiva alla participazione alle attività del gruppo.
Il tema della convivialità è antichissimo: secondo alcune ipotesi, gli uomini primitivi erano soliti consumare il loro pasto appena cacciato attorno al fuoco ed è proprio in queste occasioni che svilupparono il linguaggio per comunicare. Proprio l’alimentazione ha avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione dell’uomo: secondo l’antropologo Richard Wrangham, cuocere le carni ha cambiato fisicamente l’essere umano e il cervello, accrescendosi in volume grazie all'indirizzamento del fabbisogno energetico dalla digestione ad altre attività.
Inoltre, lo sviluppo dell'agricoltura ha permesso maggiore disponibilità di scorte alimentari. Gli uomini hanno dunque iniziato a creare comunità sempre più grandi e a stabilirsi in strutture fisse e non più nomadi, organizzandosi dapprima in villaggi e infine in città.

Le comunità, quindi, hanno costruito la loro identità intorno al cibo, differenziando le strutture sociali nel tempo e nello spazio. Secondo il sociologo Georg Simmel, il momento del pasto ha quasi i connotati di una cerimonia in cui gli individui riconfermano la propria appartenenza a un gruppo e rafforzano i legami col prossimo.
Il cibo e la religione sono dei marcatori culturali e spesso questi due concetti si intrecciano tra loro, dando luogo a tabù religiosi e al divieto di consumazione di alcune pietanze. In altri casi, come nella religione cristiana, si attribuisce un valore simbolico al cibo: il pane e il vino diventano corpo e sangue di Cristo nel rito dell’Eucarestia.
L’identità alimentare appare dunque come un elemento socialmente costruito per cui si individuano una serie di regole comuni e una cultura culinaria storicamente mediatrice di relazioni, culture e popoli.

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Eppure, in questo discorso bisogna tenere presente che la tradizione non è fatta di elementi immutabili nel tempo che si tramandano passivamente di generazione in generazione, bensì di aspetti sociali in continua evoluzione e che si adeguano ai cambiamenti storico-temporali.

La tradizione, dunque, non è in alcun modo da intendere come un complesso di memorie, ricette e prodotti tipici invariati nei secoli e nei millenni.
Anzi, come affermano Eric Hobsbawn e Terence Roger in “L’invenzione della tradizione”, le identità culinarie dei popoli sono spesso inventate di sana pianta e usate come risposta a tempi di crisi e di rapidi cambiamenti sociali per riunire un popolo e per affermare la propria identità.
Riferendosi in particolar modo alla tradizione culinaria del Bel Paese, è necessario comprendere come questa sia invenzione recente, risalente perlopiù al secondo dopoguerra.
Infatti, la cucina italiana e i suoi prodotti tipici provenienti dalle varie regioni subiscono un processo di “rebranding” negli anni Settanta, quando si avverte la necessità di mostrare da un lato il boom economico del Paese, dall'altro di richiamare un passato di grandi fasti.
Per questo motivo si decide di raccontare e mostrare all’estero la propria immagine soprattutto attraverso il cibo (che ancora oggi attira numerosi turisti impazienti di provare i piatti più famosi).
Entra dunque in gioco il foodtelling, cioè l’arte di raccontare il cibo attraverso i vari mezzi di comunicazione. Programmi tv, libri e canali social a tema cucina sono sempre più diffusi e volti a suscitare un’emozione e a catturare la curiosità dei consumatori intorno alla narrazione di un certo prodotto o alla sua preparazione.
Grazie ai social media, negli ultimi anni è esplosa la “foodporn-mania”, una vera e propria spettacolarizzazione del cibo che ci ha portati a rivedere le nostre abitudini alimentari per seguire le tendenze del momento.

Tuttavia le “mode” in cucina non sono un fenomeno moderno, e da un certo punto di vista si riflettono nelle ricette che oggi identifichiamo come parte della tradizione, ma che a ben guardare sono il risultato di numerose modifiche e adattamenti al gusto e alle contingenze della storia.
Le certificazioni IGP, DOP e DOC (pensate in origine come uno standard unico per le merci) non solo sono assegnate con lo scopo di presentare meglio un prodotto agli acquirenti, ma soprattutto per raccontare e tutelare una tradizione e un forte legame col territorio. Una tradizione che generalmente è frutto di immaginazione, creata appositamente per rispondere alle logiche della promozione commerciale.

Gli esempi sono innumerevoli. Da citare sono sicuramente i noti gamberi di Mazara che in realtà non esistono, poiché si tratta di gamberi comuni presenti nel Mediterraneo e nell’Atlantico. Il successo del gambero di Mazara è ottenuto grazie a un’intensa campagna di marketing, che gli ha consentito di distinguersi dagli altri competitor per qualità superiore del prodotto ormai associato al porto siciliano.
Rimanendo in Sicilia, uno degli ingredienti più gettonati per ricette dolci e salate è il pistacchio di Bronte. Una vera e propria ossessione per un prodotto fino a poco tempo fa limitato a una sola area di coltivazione e trasformazione. La popolarità del pistacchio di Bronte ha danneggiato l’economia delle altre varietà, ormai sempre meno diffuse e ben viste dai mercati.

Anche per i dolci delle festività vale un discorso analogo. Il panettone vanta origini risalenti all’epoca rinascimentale, eppure fino agli inizi del Novecento resta diffuso solamente intorno a Milano. Soltanto nel 1919, Angelo Motta avvia la produzione su larga scala e rilancia la ricetta del panettone. È curioso notare come le testimonianze trovate descrivono il panettone come una focaccia bassa e poco lievitata, ben diverso da come lo troviamo oggi sugli scaffali dei supermercati.
Un altro dolce con origini recenti è il tiramisù, sebbene Pellegrino Artusi riportasse nel suo ricettario una ricetta simile. E' prevalentemente realizzato con i Pavesini, quindi biscotti industriali, e si conserva in frigo, un elettrodomestico che entra nelle case degli italiani solo negli anni Sessanta.

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La cucina italiana subisce dunque l’influenza del gusto dei consumatori ed evolve anche assorbendo nel tempo abitudini e modelli provenienti da altre culture. Nonostante ciò, ci viene sempre raccontata come la migliore del mondo, come antichissima e di una storicità unica nonché immutabile.
Oggi siamo soliti osteggiare la cucina americana, che spesso rivisita le ricette nostrane, e minaccia i nostri prodotti tipici con brutte copie. Eppure non ci rendiamo conto di come alcuni elementi della nostra cultura alimentare siano proprio provenienti da quelle di altri Paesi e assorbiti nel tempo. Pertanto, la cucina italo-americana può considerarsi autentica e molto più vicina a quella dei nostri avi perché riprende le abitudini degli italiani emigrati di metà Ottocento.
Ad esempio, il Parmigiano Reggiano è oggetto di numerose repliche chiamate "parmesan"; questo formaggio, realizzato principalmente nel Winsconsin, ha caratteristiche diverse dal parmigiano moderno ma per certi aspetti è molto più vicino al prodotto che si realizzava nei dintorni di Parma fino a inizio secolo scorso.
E’ altamente probabile che gli italiani emigrati negli USA abbiano portato con sé la loro esperienza e realizzato questo formaggio altrettanto “tipico”.

Come già detto, il modello di cultura alimentare che difendiamo come il migliore al mondo è una sorta di biglietto da visita del nostro Paese, un aspetto studiato ad hoc per incentivare turismo e interesse. Dobbiamo certamente difendere questa cultura gastronomica perché raccoglie moltissimi elementi tra storia, relazioni col territorio e tra uomini; tuttavia, occorre evitare chiusure verso il cibo che rappresenta una novità e contenere le paure alimentari, anch’esse spesso risultato di determinate scelte comunicative.
Evitiamo di inciampare in gastronazionalismi nella comunicazione che ci mostrano una cucina perennemente a rischio e accettiamo invece il cibo come inclusività e contaminazione, di incontro e scambio tra popoli.

L’educazione e la conoscenza sono fondamentali per modificare le abitudini delle persone e fare scelte più consapevoli in ciò che vogliono acquistare e mangiare, oltre che necessario per farci capire che viviamo in una sorta di dissonanza cognitiva sul cibo che ci fa percepire alcune ricette esotiche molto più lontane da noi di quello che pensiamo, come accade per piatti a base di lumache o interiora.
Superare le barriere psicologiche nei confronti dei “novel foodha rilanciato persino prodotti tipici della nostra stessa cultura. È quanto successo al sushi, a lungo osteggiato per un discorso di sicurezza alimentare, e di cui oggi siamo tra i maggiori consumatori in Europa e i maggiori produttori di riso dopo la Cina.
Il sushi ha inoltre permesso di sdoganare il crudo di mare nostrano che altrimenti sarebbe rimasto un localismo, limitato a Puglia e Sicilia, riattivando un circuito economico rimasto latente.

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In conclusione, la comunicazione ha un impatto altissimo sulle nostre abitudini alimentari e si rivela uno strumento utile per esaltare e proteggere i tessuti sociali e il patrimonio condiviso del nostro Paese.
Attraverso opportune strategie comunicative si può informare e responsabilizzare sui temi della sostenibilità ambientale e degli sprechi alimentari, poiché sul cibo abbiamo la possibilità di esprimere una scelta e avere un impatto sociale, economico e politico.
Tramite il foodtelling possiamo meglio comprendere la filiera alle spalle, vedere come gli ingredienti arrivano sulle nostre tavole e attrarre il più possibile l’attenzione dei consumatori.