Ci fidiamo quasi ciecamente della nostra mente e della realtà che essa percepisce. Ma se la nostra mente fosse vittima di un'illusione? La nuova serie "1899" riprende il tradizionale dubbio iperbolico cartesiano calandolo in una sceneggiatura in stile Titanic. Vediamo qualche riflessione sul tema.
Il presente articolo contiene spoiler.
Se siete dei fan di "Dark", la serie tedesca che ha spopolato negli scorsi anni su Netflix, saprete sicuramente che in questi giorni sulla piattaforma è uscita, su produzione degli stessi autori, "1899", serie tanto labirintica e ipnotica quanto la precedente. Se ancora non lo sapevate, prego. Vediamo quali sono le coordinate principali della serie.
L'azione si svolge per quasi tutto il tempo a bordo di un transatlantico, Kerberos (il cui nome presagisce già tinte fosche alludendo al mitologico guardiano dell'ingresso del regno degli Inferi), stile Titanic sia negli arredamenti che nello scopo: attraversare l'oceano partendo dall'Europa per raggiungere gli Stati Uniti. I passeggeri sono una serie di personaggi piuttosto variegati (una coppia giapponese madre-figlia, due novelli sposi, un prete...), tra i quali compare Maura, protagonista dai capelli rossi, nome irlandese, alla ricerca del fratello di cui aveva perso le tracce mesi prima. A Maura si affianca l'affascinante capitano del Kerberos, Eyk (lo Jonas adulto di Dark), insieme al suo equipaggio. Tratto comune a tutti questi personaggi è, ad un primo sguardo, una certa attitudine menzognera. Si ha infatti la percezione di star osservando qualcuno che ostenta ciò che non è: gli sposi sono giovani e freschi di matrimonio, ma a malapena si parlano, la giovane donna giapponese dall'aspetto nobile e altezzoso tradisce in realtà insicurezza in ogni gesto. Ognuno di loro non è, o non è del tutto, chi dice di essere.
Ciò che spezza la convivenza forzata di questa Babele di personaggi dalle più disparate provenienze è un fatto sospetto: il Kerberos riceve infatti un segnale radio indicante la posizione del Prometheus (ancora mitologia con il titano ribelle che rubò il fuoco agli dei per donarlo agli esseri umani), nave scomparsa mesi prima di cui si era persa ogni traccia. Il capitano decide quindi, contro la volontà dei passeggeri a bordo, di dirigersi verso la posizione indicata. All'arrivo presso la posizione segnalata si trova effettivamente il Prometheus: la nave tuttavia è deserta e dei passeggeri (o dei loro cadaveri) non vi è alcuna traccia, rendendo quindi impossibile l'evenienza che qualcuno abbia effettivamente inviato una richiesta di soccorso. L'atmosfera inizia a farsi surreale.
Con queste premesse basilari circa la trama di 1899, possiamo ora addentrarci nel tema ricorrente dell'intera serie, ovvero l'inganno per eccellenza della mente: il confine tra realtà e illusione. Ecco riproposto il famoso dubbio iperbolico cartesiano: come siamo certi che la nostra realtà esista davvero? Come facciamo a sapere che questa nostra vita, così come la viviamo, non è il frutto di un inganno (di un genio maligno per Cartesio o di una simulazione tramite elettrodi applicati ad un cervello in una vasca nella più moderna versione di Putnam)? Semplicemente, e terribilmente, non lo sappiamo. E non solo non lo sappiamo, ma non abbiamo nemmeno i mezzi per scoprirlo mai.
Ma facciamo un passo indietro. Quando vogliamo provare l'esistenza del mondo esterno, il primo appiglio che ci sembra di avere è quello dei nostri sensi: il mondo esiste perché lo vedo, lo tocco, lo percepisco. Ne faccio quindi esperienza. Come obietta Cartesio nelle sue Meditazioni Metafisiche tuttavia, i nostri sensi spesso ci ingannano: pensiamo per esempio a quando, osservando un cucchiaino immerso in un bicchiere di acqua, questo ci appare spezzato in due, nonostante non lo sia. I nostri sensi quindi non sono del tutto affidabili per provare l'esistenza del mondo esterno.
Allo stesso modo, potremmo fare appello al nostro pensiero, alle facoltà della nostra mente o alla conoscenza che pensiamo di avere sul mondo esterno, ma ancora ci troveremmo in un vicolo cieco. Potremmo essere infatti vittime di un'illusione o star vivendo un sogno: ci troveremmo nella situazione di quel saggio cinese, Zhuangzi, che sognò di essere una farfalla che volava leggera e spensierata. Dopo essersi svegliato era confuso: si domandò come potesse determinare se fosse veramente Zhuangzi quando aveva appena finito di sognare di essere una farfalla o una farfalla che aveva appena iniziato a sognare di essere Zhuangzi. Come conclude la parabola originale, una differenza d'altronde, dovrà pur esserci.[1]
Questo tema dell'illusorietà del reale e dell'inganno della mente, trova in 1899 un riferimento ancora più antico di quello cartesiano: il mito della caverna di Platone. Nel settimo libro della Repubblica (514a-517a), Platone descrive un gruppo di prigionieri (paragonabili ai nostri passeggeri della Kerberos) piuttosto particolari:
Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, [co]sí da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini.[...] Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.[2]
Le ombre degli oggetti proiettate dal fuoco sulla parete della caverna, e l'eco delle voci di coloro che li trasportano, sono quindi la versione fittizia di una serie di oggetti e suoni che in realtà si trovano alle spalle dei prigionieri, ma di cui questi non sono a conoscenza. Quelle ombre e quegli echi quindi sono tali solo per noi che vediamo alle spalle dei prigionieri; per i prigionieri rappresentano la realtà. "Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri." fa commentare Platone; "Strana realtà" aggiungeremo noi. Ma Platone continua: "Somigliano a noi", e, aggiungiamo ancora noi, ai passeggeri della Kerberos. Vediamo in che senso.
Proprio come i prigionieri di Platone sono convinti di star osservando la realtà quando invece sono solo vittime di un'illusione, allo stesso modo i passeggeri della Kerberos sono convinti di vivere una dimensione che in realtà non esiste. Essi sono vittime di "un'illusione, un sogno, un trucco" come ipotizza presto correttamente Maura.
Nell'ultima puntata della stagione, per bocca del padre di Maura, troviamo in effetti il richiamo diretto a Platone:
Quando tua madre aveva la tua età trovò un saggio sul mito della caverna di Platone nel mio studio. Era chiaramente troppo giovane per capire il concetto astratto espresso da Platone. Ciononostante lei lo lesse più e più volte. È stato questo pensiero a sconvolgere il suo mondo: l'idea che la nostra conoscenza abbia dei limiti e che non possiamo sapere se le cose sono esattamente come appaiono. Siamo immersi in un torpore, inconsapevoli della vera natura delle cose. Una sera venne da me e mi disse: "Se è vero quello che sostiene Platone, allora come sappiamo se una cosa è reale? Come sappiamo che la realtà effettiva non è all'esterno della vita che viviamo?" Un pensiero davvero profondo per una bambina della sua età. La guardai e le domandai: "Non è questo ciò che Dio è? Il creatore della nostra realtà?" Lei rifletté un momento, e poi rispose: "Ma allora è il mondo in cui Dio vive che è reale e noi non siamo che la sua casa delle bambole. Ma poi, chi ha creato Dio? Non va avanti all'infinito?"
Dall'inganno della mente, che ci porta a credere a qualcosa che non è vero, deriva il limite stesso della mente: una volta che siamo all'interno dell'illusione, la nostra mente non ha gli strumenti per verificarlo. E questo perché non possiamo, in un certo senso, "uscire" dal mondo in cui ci troviamo. Solo un elemento esterno, che rompe gli schemi e le leggi della realtà vigente, fa crollare la finzione: sono una torcia troppo moderna, degli schermi di televisori che poco hanno a che fare con il 1899 a far intuire allo spettatore che ci sia un altro piano di realtà. Ma questa è una magra consolazione.
Il sospetto che gli sceneggiatori bene insinuano infatti è più profondo e strutturale: ogni realtà è creata da un creatore (una mente, un Dio, un pensatore) che vivrà necessariamente in un'altra realtà ancora, esterna a quella a cui si assiste. Ma la realtà del creatore, potrebbe, senza alcuna contraddizione logica, a sua volta nascere dal pensiero di qualcuno. Ecco la più terribile delle matriosche: un susseguirsi di realtà effimere, in cui si resta intrappolati senza speranza di salvezza.
Nel finale della serie succede quello che tutti sperano: Maura si sveglia. La protagonista si trova ora a bordo di una nave (stavolta) spaziale che viaggia nell'universo nell'anno 2099. Fino a questo momento è stata, proprio come gli altri passeggeri della Kerberos, collegata ad una simulazione. Ora possiamo tirare un sospiro di sollievo. Un "Benvenuta nella realtà" compare sullo schermo del computer di bordo. La finzione è finita. Ma ne siamo certi?
Il testo originale, da Tchouang-tseu, Zhuangzi, capitolo II, "Discorso sull'identità delle cose" recità così: "Zhuangzi una volta sognò di essere una farfalla, una farfalla che svolazzava e svolazzava intorno, felice con se stesso e facendo ciò che gli piaceva. Non sapeva di essere Zhuangzi. All'improvviso si svegliò e rimase lì, un inconfondibile e massiccio Zhuangzi. Ma non sapeva se era Zhuangzi che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhuangzi. Tra Zhuangzi e una farfalla, deve esserci una differenza! Questa si chiama trasformazione delle cose." ↩︎
Platone, Repubblica, 514 a-517 a ↩︎
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