Slavoj Žižek associa i dipinti di Jackson Pollock al concetto di empirismo trascendentale di Gilles Deleuze. Questa analogia si apre a delle riflessioni sull'arte e sulla virtualità, sulle esperienze che entrambe comportano e su quanto si può cogliere di artistico nella filosofia e viceversa.
«Forse Jackson Pollock è il ‘pittore deleuziano’ definitivo»: con questa frase il filosofo Slavoj Žižek, nel suo Organi senza corpi (La scuola di Pitagora editrice, 2012), apre al campo dell’arte la sua riflessione su uno degli elementi più intriganti del pensiero di Gilles Deleuze, ovvero il cosiddetto “empirismo trascendentale”.
L’espressione può forse creare un certo straniamento in chi la incontra per la prima volta. Empirismo trascendentale? Il peso filosofico di tale aggettivo inclina questi due termini, portandoci forse a recuperare dalla nostra memoria le voci di autori come Kant e Fichte. Ma cercare di interpretare ciò che Deleuze ci sta suggerendo affidandoci a categorie classiche come la trascendenza e l’immanenza non sarebbe sufficiente.
In questo caso, infatti, ci troviamo di fronte al Deleuze artista. Il “trascendentale” di cui ci parla non ha bisogno di essere attualizzato con un nome: esso resta disteso, come una veloce pennellata, nell’aggettivo. Attraverso tale termine, il filosofo francese non si riferisce più alla struttura di condizioni in cui incaselliamo i dati empirici, bensì a un campo di pura virtualità, di pura «coscienza senza io» (Žižek). Per capire questa fondamentale differenza, può essere utile ricordare che per Kant il trascendentale è rappresentato dalle forme e dai principi "a priori" che rendono la conoscenza possibile, mentre l'empirico deriva dall'esperienza. Deleuze scardina questa divisione: il trascendentale diventa "ciò che c'è", non più solo "ciò che potrebbe esserci", e la stessa conoscenza perde il suo necessario ancoraggio empirico.
Il termine “virtuale”, ovviamente, non va confuso in questo caso con la virtualità offerta dalla tecnica, né tantomeno con le esperienze reali di visione potenziata che ci vengono sempre più spesso proposte. Un esempio significativo di questa virtualità chiusa, strumentale, ci può forse essere fornito proprio dalle mostre d’arte, in cui sempre più frequentemente una parte dell’allestimento (di solito la più pubblicizzata) è dedicata all’esperienza in VR dell’opera. Concretamente, questo procedimento si traduce in una visione distorta, più che aumentata, una prospettiva che priva il quadro o la scultura del suo fondamentale rapporto con lo spazio. Perché sì, per coloro che osservano anche la porzione del muro intorno al quadro è considerabile come arte, e questa smania virtuale di ingrandire i dettagli o espandere l’immagine è decisamente pompier.
C’è poi un altro fatto curioso su cui riflettere. Le più recenti proteste degli attivisti del movimento Ultima Generazione, che in certi casi hanno comportato l’imbrattamento di quadri e sculture famose, ci hanno ricordato improvvisamente che le opere sono oggetti. Oggetti che si possono macchiare, che si possono rovinare, che si possono benissimo distruggere e far sparire. Insomma, tutt’altro che realtà virtuali, giusto? Eppure è proprio l’ingrediente fantasmatico - il nome dell’artista e la sua importanza, il peso culturale attribuito all’opera, le sue qualità artistiche - a farci indignare come di fronte a un atto sacrilego.
Ed ecco che torniamo quindi al vero significato del virtuale: ciò che c’è prima della cosa, con la cosa, ma che solo in parte coincide con essa.
In questo senso, l’attuale dovrebbe essere l’altra faccia della medaglia, ovvero il dato concreto ricavato dal flusso di virtualità in cui siamo immersi. In realtà vanno fatte un paio di precisazioni per quanto riguarda l’interpretazione che ne dà Deleuze. Innanzitutto, le due entità attuali del soggetto e dell’oggetto sono realizzazioni “a margine” rispetto al flusso primario della virtualità. Ritornando alla nostra mostra, è come se sia il visitatore che il quadro fossero compresi in un campo di possibilità che li precede (sarebbe interessante chiedersi anche se non sia l’opera ad attuare l’artista, e a finirlo, e non viceversa). Ma a questo punto l’attenzione va posta sul soggetto: siamo sicuri che sia un ente o c’è forse qualcosa in esso che è virtuale? È decisamente virtuale: virtualmente presupposto come punto di vista di fronte all’oggetto e imposto a una singolarità che potrebbe anche non essere soggettiva.
Torniamo quindi a Pollock e all’accostamento di Žižek. Potremmo immaginare di far dialogare gli sguardi di Deleuze e del pittore, sul comune terreno del trascendentale.
Le opere di Pollock - viste con occhio deleuziano - potrebbero apparirci in due modi, un po’ come i tagli di Lucio Fontana: come porzioni di uno spazio infinitamente più ampio striato da linee oppure come l’agglomerato delle singolarità delle tracce che si accalcano davanti all’occhio. Insomma, cosa sta fuori, e cosa sta dentro, in un quadro di Pollock?
L’empirismo trascendentale ci permetterebbe di identificare queste pennellate come tracce di movimenti vivi, di pure casualità asoggettive che attraversano lo spazio e che non hanno nient’altro da indicare se non questo loro stesso attraversamento. Sono segni concreti di qualcosa che non lo è, ma che messi insieme creano un’opera d’arte, quindi un’entità ancora diversa dall’artista e dal suo gesto. Come afferma lo stesso Deleuze in Logica del senso: «Quando si apre il mondo brulicante delle singolarità anonime e nomadi, impersonali, preindividuali, sfioriamo il campo del trascendentale» (Feltrinelli, 2022).
E ora, provate a leggere Deleuze o a contemplare Pollock in VR.
Comments ()