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#5 Ambienti: Ferite riflesse

L’ambiente è in una relazione strutturale con la nostra identità. Pertanto, la malattia del nostro pianeta non può che riflettere, ed essere il riflesso, di uno stato di sofferenza umano. Rimane, però, la speranza che la consapevolezza di questa duplice malattia possa portare ad una vita rinnovata.

Oggi c’è una tendenza generale a trattare l’ambiente come qualcosa di distante, da cui siamo separati e nei confronti del quale abbiamo il dovere morale di riconoscere il nostro ruolo di distruttori. In tutto questo però, è chiara la percezione di uno iato, di una scissione, di una lontananza incolmabile fra noi e lo spazio circostante, di una differenza ontologica che ci vede superiori rispetto a ciò che ci sta attorno, nei confronti del quale acquisiamo atteggiamenti paternalistici ed un’aria di accondiscendente supremazia. Ma che cos’è l’ambiente? Esso non è solo qualcosa di statico e distante, che si trova al di fuori di noi e che interagisce con gli esseri umani in maniera unicamente passiva, reagendo. Al contrario, la relazione con l’ambiente struttura la nostra identità, ci rende chi siamo ed ha un ruolo fondamentale nel costituirsi della nostra autocoscienza. Per questo, vivere in un ambiente malato non può che renderci malati. La speranza è, però, che nella graduale presa di coscienza della ferita che con le sue azioni ha apportato all’ambiente, l’essere umano possa acquisire consapevolezza rispetto alla tossicità del suo modo di pensare e di agire, e che questo conduca ad un’umanità nuova.

In psicologia ambientale, di vitale importanza è il concetto di identità di luogo. Secondo Proshansky,

l’identità di luogo rimanda a quelle dimensioni del sé che definiscono l’identità personale dell’individuo in relazione all’ambiente fisico attraverso un complesso sistema di idee, credenze, preferenze, sentimenti, valori e mete consapevoli e inconsapevoli unite alle tendenze comportamentali e alle abilità rilevanti per tale ambiente (1983).

L’ambiente, però, non influisce unicamente sulla nostra identità personale. Secondo l’Attention Restoration Theory di Kaplan e Kaplan (1995), infatti, questo agisce anche sul nostro livello di rilassamento e sulle nostre sensazioni. Se, ad esempio, in un ambiente urbano è richiesta un’attenzione specifica e focalizzata su un compito affaticante e prestante, in un ambiente naturale l’attenzione è diffusa e questo permette di rilasciare lo stress, favorendo quindi una sensazione di allentamento e di distensione psicologica.
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Secondo un’analisi più filosofica e antropologica, è evidente che queste teorie rimandano all’idea culturalista secondo la quale l’ambiente determina la nostra personalità e la nostra salute psichica. Io ritengo, tuttavia, che questa relazione non sia così deterministica e che non si possa ridurre la psiche all’ambiente. Al contrario, credo, in accordo con Georges Devereux, che l’ambiente giochi un ruolo fondamentale nella strutturazione dell’identità e della psiche, ma che la nostra identità sia multidimensionale e in un certo senso condizionabile, pur rimanendo libera di strutturare gli stimoli ambientali con piccole differenze. Non siamo tutt’uno con la natura che ci circonda, ma c’è un gioco di riflessi e di reciproche proiezioni. Infatti, quello che è estremamente importante è che, come afferma Devereux in La rinuncia all’identità. Una difesa contro l’annientamento, comprendere il mondo esterno, comprendersi ed essere compresi formano un’unica configurazione caratterizzata da reciprocità e complementarità perfetta. La percezione diffusa che abbiamo avuto negli ultimi due secoli, e che purtroppo molte persone hanno ancora oggi, interpreta l’ambiente come una sorgente da sfruttare, come una fonte di risorse illimitate utili a soddisfare le nostre voglie e bisogni. Tale prospettiva ha causato una profonda e irreparabile ferita non solo nella natura che ci circonda, ma nella nostra autocoscienza stessa. Come ha scritto Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, gli esseri umani acquisiscono autocoscienza solo nella relazione, nel desiderio del desiderio dell’altro, in virtù del quale ci si può rispecchiare e riconoscere come portatori di un determinato valore. Il problema è che se il nostro approccio verso ciò che ci circonda è basato sul principio di prestazione, sul principio dell’utilità, di un egoismo individualista, violento e indifferente verso la sofferenza e la vita altrui, e se la natura è vista come qualcosa di cui abusare, da cui trarre profitto, da esaurire, spolpare, dissanguare, allora che coscienza possiamo avere di noi stessi? Se lo specchio in cui proiettiamo la nostra immagine ci mostra solo oggetti, compresi quelli naturali, di cui fare uso nella maniera più efficiente possibile, come possiamo percepire noi stessi e gli altri esseri umani come dotati di valore intrinseco, come vite rispettabili per il solo fatto di essere vite? E come facciamo, quindi, a riconoscere l’importanza della nostra vita in quanto vita, se è tutto unicamente ricondotto all’utile, al profitto e all’efficienza? Abbiamo accoltellato l’ambiente, la natura e la vita del nostro mondo, sentendoci ontologicamente superiori e quindi arrogandoci il diritto di avvelenarli e contagiarli, ma non ci siamo accorti che così facendo abbiamo danneggiato la nostra stessa autocoscienza. Abbiamo ammalato la natura e, in questo gioco di reciproche proiezioni, abbiamo ammalato noi stessi, creando quello che può sembrare un circolo vizioso.
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Rimane, però, la flebile speranza che la presa di coscienza di questa sofferenza indotta alla natura da parte dell’essere umano, di cui siamo spettatori negli ultimi anni, possa risvegliare in noi un rinnovato senso di umanità che sembrava andato perduto. Se in queste crescenti lotte per salvare il pianeta riuscissimo ad abbandonare il nostro atteggiamento paternalistico e di ontologica supremazia e riuscissimo a superare l’idea di iato, di distanza incolmabile fra noi e ciò che ci circonda, forse rimarrebbe aperta la possibilità di uscire da quello stato di malattia e sofferenza in cui abbiamo posto noi stessi. Se nelle rivendicazioni ambientaliste riuscissimo ad aprire gli occhi e a vedere che l’ambiente è uno specchio in cui proiettiamo noi stessi e che ci rimanda un’immagine di noi stessi abbruttita, alienata, ferita, allora forse diventeremmo in grado di comprendere che non solo è necessario medicare e curare l’ambiente, ma che tutto questo va di pari passo con la guarigione dell’essere umano. Forse, e questa è la mia speranza più profonda, questo risvegliarsi delle coscienze nelle giovani generazioni, stufe di essere ideologicamente oppresse dall’appiattimento del capitalismo, insieme alla graduale presa di coscienza dello stato di malattia del nostro pianeta, porteranno alla consapevolezza del gioco di reciproche proiezioni che struttura la nostra identità e la nostra comprensione del mondo. Così, potremmo vedere la distruzione del pianeta come riflesso della nostra stessa distruzione e quindi prendere consapevolezza della nostra sofferenza, anche come eco di quella del pianeta. Solo così, forse, potremmo allora uscire da questo stato di alienazione e annientamento della vita in cui ci troviamo e pensare ad un ambiente nuovo, di pari passo con un’umanità e vita rinnovata.