Un fantasioso agone tra Omero ed Esiodo intorno alla frutta sulla pizza. Come non mai, scontro tra titani.
Omero ed Esiodo, i più divini fra poeti, tutti quanti gli uomini bramerebbero averli concittadini.
Se non che, Esiodo, nominando a sua patria, tolse di mezzo ogni contesa, dicendo che suo padre
in un borgo meschino, nei pressi abitò d’Elicona,
in Ascra, trista il verno, penosa l’estate, e mai buona.
Omero, invece, tutte le città, e d’ogni città le colonie, affermano che sia loro.
E primi quelli di Smirne dicono che, essendo figlio di Meles, fiume che attraversa la loro terra, e della Ninfa Cretèide, da prima fu chiamato Melesigène, e poi, divenuto cieco, gli fu cambiato il primo nome in quello d’Omero, che presso loro serve a designare chi sia privo della vista.
Quelli di Chio adducono anch’essi argomenti per provare che fu loro concittadino, e affermano che presso loro vivono ancora alcuni della sua famiglia, chiamati Omèridi.
Quelli di Colofóne mostrano anche il luogo in cui dicono che egli, mentre insegnava l’alfabeto ai ragazzi, fece i primi tentativi di poesia, e frutto ne fu il Margíte.
E alcuni dicono che fu più antico di Esiodo, ed altri più giovane, e parente.
Ed alcuni dicono che fiorirono nel medesimo tempo, tanto che sarebbero venuti a gara in Aulide di Beozia.
Omero, raccontano, dopo aver composto il Margíte, andava intorno per le città a recitarlo; e, giunto a Delfo, domandò all’oracolo quale fosse la sua patria. E la Pizia gli avrebbe risposto:
Terra natale a tua madre fu l’isola d’Io, che te spento
accoglierà: da l’enimma però di fanciulli ti guarda.
Avuto questo responso, rinunciò a recarsi ad Io, e rimase in quei paraggi. E intorno a quel tempo, Ganíttore, celebrando feste funebri in onore del padre Anfidamante, re dell’Eubea, chiamò a gareggiare tutti gli uomini insigni non solamente per forza e velocità di piedi, bensì anche per sapere: e i premii erano cospicui.
E così, per caso, a quanto dicono, Omero ed Esiodo si trovarono insieme in Càlcide. E giudici della gara sederono i notabili di Càlcide, e fra loro Pnèide, fratello del morto. Ed entrambi i poeti gareggiarono meravigliosamente. Ma vinse Esiodo. E la cosa, raccontano, andò così.
Fattosi in mezzo alla lizza Esiodo, rivolgeva ad Omero quesiti, uno dopo l’altro. Ed Omero rispondeva.
Esiodo, dunque, chiese:
Figlio iì Mèleto, Omero, che avesti dai Numi saggezza,
prima di tutto dimmi qual cosa più giovi ai mortali.
Omero:
Primo, per i mortali non nascere è meglio di tutto;
ma nati, quanto prima varcare le soglie dell’Ade.
E la seconda domanda d’Esiodo fu la seguente:
Dimmi anche questo, tu che ai Numi sei simile, Omero:
che cosa pensi tu che più l’animo allieti ai mortali?
E Omero:
Quando la pace regna serena sul popolo tutto,
e nel palagio dei re, schierati i signori a banchetto,
porgono orecchio a un divino cantore e son presso le mense
colme di pani e di carni, e attinge il coppier dalla brocca
vino soave, e lo reca d’attorno, ne colma le coppe.
Questo il miglior diletto, per ciò ch’io mi penso, nel mondo.
E a sentir questi versi, gli Elleni rimasero colpiti di tale ammirazione, che li chiamarono versi aurei; ed anche oggi, nei sacrifizi pubblici, prima della libagione e del banchetto, sono recitati per invocare Numi. Ed Esiodo, indispettito pel successo d’Omero, ricorse alle domande difficili, e recitò i seguenti versi che a tutti piacquero e nessuno comprese:
Musa, le cose che sono, che furono già, che saranno,
non mi cantare: ad altri soggetti rivolgi il tuo cuore.
E Omero, volendo cavarsela con una risposta degna della proposta, disse:
Per la vittoria in gara, d’intorno alla tomba di Giove
non cozzeranno i pie’ veloci cavalli coi carri.
E avendo anche qui risposto a tòno, Esiodo si rivolse alle sentenze anfibologiche e propose di dir lui tanti versi, uno ad uno, e ad uno ad uno rispondesse Omero, e sempre in modo congruo. Il primo che parla è sempre Esiodo, poi segue Omero.
Esiodo:
Di cuore a tutti quanti l’Atríde augurava la morte,
ma non però sul mare. Così prese allora a parlare:
«O forestieri, mangiate, bevete, né alcuno di voi
possa alla patria sua carissima fare ritorno…
Omero:
...dai mali afflitto: illesi possiate tornar tutti quanti.»
E dopo che Omero ebbe così risposto a puntino, di nuovo Esodo prese la parola.
Ti faccio solo un’altra dimanda, ed a questa rispondi:
sù la pizza lice porre frutti arborei o d’altro tipo,
o ciò ritieni motivo d’insulto al dio erceo?
E Omero rispose:
Tu m’interroghi su questione assai sottile e fragile.
Permettimi, dunque, una più lunga tirata.
Si narra che Tiresia, essendo stato interrogato,
ritornò alla fonte di Atena dagli occhi scintillanti.
Impossibile una seconda punizione, attese ben tre anni
il ritorno della dea a cui pose il medesimo quesito.
Pallade sciolse l’enimma e rivelò all’indovino
il sincero e segreto motivo dello scontro tra il padre
che siede sull’Olimpo beato e il padre del padre, Crono titanico.
Il giovane dio, in convivio co’ i fratelli,
mangiava il tondo impasto all’ombra d’un melo.
Come era solito, Poseidone rubò un trancio ad Ade
che spinto da giusta ira e frenato da fraterno rispetto
sfogò nel tronco, bersaglio migliore, suo pugno funesto.
La pianta si scosse, e assieme a foglie e rametti,
caddero pomi, oracoli per Discordia.
Zeus, placato i due fratelli, disse: “Anime tanto diverse,
scuotete la terra con colpi di lancia vibrante,
aggiungendo sventura al mio cuore fraterno,
o appaciatevi, come i mari e le terre,
e date vita ad un potere più grande dell’uno e dell’altro”.
Prese così un pomo e lo tagliò a fette, lo pose
sulla pizza e, facendone assaggiare ai cronidi,
congedò le parole dal gusto.
Tale impasto divenne specchio del mondo,
colmo d’elementi diversi, dolci e amari, freddi e caldi,
che germogliano dalla nera terra e che s’abbandonano d’alti rami.
Orgogliosi della scoperta i tre giovani dèi andarono
al cospetto del padre, per darla ai messi del cosmo intero.
Ma breve fu l’entusiasmo, e con rabbia da Crono spento.
Il re disdegnava questa ignominiosa e assurda nuova,
tanto che, per spregio, disse: “Se di tal peccati è lecito cibarsi,
se dolce pomo e grano salato possono convivere in unico impasto,
che convivano anche l’amor paterno e l’infame atto,
e che tanto valga di voi anche far banchetto”.
L’esito della lotta scaturita è a tutti noto:
vinsero gli Olimpi, e i nuovi sedettero al posto dei vecchi,
come generazione dopo generazione fanno gli stessi uomini.
Il pubblico e la giuria tutta erano ammaliati dal canto di Omero e il cuore di Esiodo era conteso tra la rabbia dell'invidia e il dolce desiderio di rivalsa. Certo di averlo messo in trappola, tosto rispose con lo scacco:
Oh padre d’eroi c'al valore loro non vieni meno,
allo scontro non fuggi. Ma con questo ti rispondo
che d’altro parere è la mia fonte, e non parla
per sentito dire, come chi cieco non sa chi ascolta;
Ciò che ti dico gli dèi stessi a noi lo mostrano ogni istante,
attraverso la bocca, sempre veritiera, della natura da loro ordinata.
Se, infatti, nessuno può chieder conferme a vecchi oramai perduti,
ognuno può e deve chiederle a ciò che ovunque lo cinge e lo circonda.
Volgendo lo sguardo a bestie d’acque di terre e aerei, non uno
ne vedo accoppiarsi con altra specie, dalla sua aliena.
Ma vedo capre unirsi a caproni, vacche a tori e
api a fuchi. Animali diversi li vedo invece cacciarsi
e uccidersi a vicenda, cibarsi gli uni degli altri.
Solo uno stolto o un cieco sia di occhi che di spirito
porrebbe in un tondo recinto lupi e agnelli,
col falso sogno di un’armonica unione, e a tutti
questo è evidente; ma tu pretendi che un tondo cornicione,
non di legno o pietra ma d'acqua e farina, riesca in una simile follia.
Le stesse piante non mischiano i loro pollini e i loro semi
nel grembo della terra. Distinti sorgono i fichi dall’uva,
distinte le fave dalle lenticchie e, anche se seminate nello stesso terreno,
non vi sarà stelo che terra sia le une che le altre.
A ognuno il suo, secondo natura, secondo gli dèi.
Solo un atto tracotante violenterebbe tale legge,
generando abomini che da Minosse castigano gli uomini.
Il favore si divise, così, tra i due poeti. Ogni fazione urlava il nome del proprio condottiero e portava le sue ragioni e nominava gli impasti più buoni che avessero mai mangiato. La fazione di Omero portava prelibatezze d’incontri tra prosciutti e pere, tra mortazze, limoni e noci, tra mele, maiali e formaggi. La fazione di Esiodo elogiava gusti secolari, che mai nel tempo avevano perso il loro prestigio e il loro gusto. “Capricciose!”, “margherite!”, “quattro formaggi!” e “marinare!” si accalcavano sugli spalti; la stessa giuria era divisa. Così il re diede ai due un ultimo scambio di battute e questo avrebbe decretato il vincitore. Ganìttore diede ad Esiodo la parola, il quale tentò un ultimo attacco all'avversario.
Figlio di Mèleto, Omero, giacché, come dicono tutti,
t’onorano le Muse, le figlie di Giove possente,
compaginando versi, rispondi che cosa migliore
sia pei mortali, e che cosa più infesto: desidero udirlo.
E Omero:
Esiodo, progenie di Giove, tu chiedi, ed io pronto
sono a parlar di gran cuore. Così, volentieri rispondo.
È pei mortali la cosa migliore quand’uno misura
fa di sé stesso. Peggiore fra tutti i malanni
quand’uno adopra verso sé stesso indulgenza soverchia
e verso li altri rigidezza spietata.
In molti infatti promuovo a leggi i loro gusti
e condannano chi infrange il falso dettame.
E gli Elleni, colpiti anche qui di meraviglia, applaudirono Omero, perché quei versi erano ben degni di lui, e a lui decretarono la corona. Ma il re, invece, incoronò Esiodo, dicendo che la vittoria spettava a chi esortava all’ordine, e non già a chi cantava guerre e confusioni. Cosí, dunque, raccontano, Esiodo avrebbe conseguita la vittoria. E preso il tripode di bronzo, lo avrebbe offerto alle Muse, dopo avervi fatta incidere la seguente epigrafe:
Consacra questo tripode Esiodo alle Muse d’Elicone,
poi ché con l’inno vinse Omero, eroipatrico.
Non conosca il salato impasto ananas o lampone!
L’“agone di Omero ed Esiodo” è un’operetta mista di versi e prosa risalente non più indietro dell’età di Adriano (117-138 d.C.). La traduzione con cui ho giocato è del grande grecista Ettore Romagnoli (Roma, 1871-1938) a cui dedico questo impasto del suo più raffinato lavoro e della mia più maldestra aggiunta.
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