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Non nascere, ecco la cosa migliore

L'antinatalismo mette in discussione la procreazione umana: se vivere è dolore, perché scegliamo di riprodurci? Perché pensiamo che la vita sia sacra e inviolabile? Vivere è sufficiente a dire che è giusto vivere? E se avesse invece ragione Sofocle: “Non nascere, ecco la cosa migliore”?

“Ieri sono diventato padre”, annuncia con un sorriso il professore di filosofia. “Congratulazioni, prof!”, esclamiamo quasi all’unisono. Per superare l’imbarazzo del momento la sua risposta si fa ironica: “Grazie, peccato solo che non possa più partecipare al Movimento per l’estinzione umana volontaria”. Era la prima volta che ne sentivo parlare. Nel pomeriggio, curiosa, cercai su internet e scoprii qualcosa di rivoluzionario rispetto a ciò che avevo fino a quel momento pensato: esisteva a livello giuridico un movimento favorevole all’estinzione dell’essere umano e, quindi, all’antinatalismo.

La prima volta che ho appreso della corrente antinatalista frequentavo il quinto anno di liceo, e oggi, a distanza di anni, mi ritrovo a rifletterci nuovamente. Prima, però, di addentrarci nell'argomento, occorre fare chiarezza su cosa significhi il movimento estinzionista e, più in generale, l’antinatalismo.

Il Movimento per l’estinzione umana volontaria, nato nel 1991, si fonda sul principio secondo cui la specie umana sia inevitabilmente dannosa per il pianeta: l’estinzione umana è la soluzione più auspicabile per la salvezza della Terra. Il fondamento teorico del movimento è l’antinatalismo, ossia “la prospettiva secondo la quale mettere al mondo nuovi esseri viventi è sbagliato”[1]. In altre parole, mentre il Movimento va letto in chiave ambientalista ed ecologista, l’antinatalismo si oppone alla procreazione in generale.

Storicamente l’esortazione alla non procreazione non è una novità: diversamente dal “crescete e moltiplicatevi”[2] dell’Antico Testamento, per vincere la battaglia tra Bene e Male i manichei, ad esempio, si proponevano di non generare figlə. Accanto al campo religioso, anche la letteratura e la filosofia hanno riflettuto sulla perpetuazione dell’esistenza umana. Il pessimismo di Leopardi e la sfiducia di Schopenhauer rispetto a un possibile progresso umano fanno certamente da sfondo a questa corrente.

Oggi un esponente dell’antinatalismo è David Benatar, direttore del Dipartimento di filosofia dell’Università di Città del Capo. Secondo Benatar, è moralmente problematico procreare poiché vivere è sempre e comunque dolore; e non solo per l’essere umano, ma per tutti gli esseri senzienti.
“Ognuno di noi ha subìto un oltraggio nel momento in cui è stato messo al mondo”[3], è la sua principale tesi. Affinché nessuno, venendo al mondo, soffra, occorre interrompere la procreazione. Detto altrimenti, se si desidera, giustamente, sottrarre anche al minimo dolore lə proprə figlə, bisognerebbe non metterlə al mondo.

Per Benatar nessuna ragione è valida per decidere di procreare: è moralmente irresponsabile far nascere un bambino votato alla sofferenza e alla morte. Nel mettere al mondo un individuo non vi è consenso, e dunque nemmeno consenso al dolore. Argomento valido però anche in senso opposto: così come non si sceglie di nascere, allo stesso modo, come spiega Habermas, non è data possibilità di scelta e di autodeterminazione a chi non viene al mondo.

Potente avversario dell’antinatalismo è il concetto di “sacralità della vita”, ossia l’idea secondo cui la vita sia un principio assoluto e inviolabile.
La matrice religiosa è evidente: l’essere umano è imago Dei, dunque la vita umana va sempre preservata e rispettata (discorso antropocentrico). Essa è sacra semper et pro semper. Questo assunto fonda l'etica cristiana e, di conseguenza, la cultura occidentale. Tale affermazione è così tanto radicata culturalmente e storicamente da non indurre nemmeno a sollevare dubbi attorno alla sua correttezza. È quindi difficile avvicinarsi in prima battuta all’antinatalismo a causa di forzature storico-religiose.

In nome della sacralità della vita, aborto, eutanasia, suicidio sono considerati peccati capitali, e la finalità primaria della sessualità ricade nella sfera riproduttiva. Il buon cittadino è ancor’oggi il riflesso del buon cristiano, tanto che le politiche per la natalità trovano forza nella morale cristiana. La pressione sociale occidentale incentiva a fare figlə: la procreazione viene narrata come un importante presupposto per partecipare in maniera lodevole allo sviluppo della società. Non è casuale infatti l’attenzione riposta nel ruolo materno durante il momento della gravidanza, attenzione che generalmente cala quando tale periodo termina e la donna desidera rientrare a lavoro.

Certamente per il bene della sopravvivenza della specie umana è funzionale sostenere che la vita sia sacra e che si nasca per far nascere, ma si potrebbe andare oltre tutto ciò. È intellettualmente stupido non considerare nel discorso anche la brutalità della vita: esistere significa indubbiamente soffrire e far soffrire. Generare vita e generare dolore vanno di pari passo; allora non si è forse, almeno parzialmente, danneggiatə nell’essere messə al mondo?

Nella leggenda di Re Mida – narrata da Sofocle e ripresa da Nietzsche – alla domanda del re rivolta al saggio Sileno su “quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’essere umano”, segue la risposta silenica: “Non essere nato, non essere, essere niente”[4]. O come scrive Sofocle: “Non nascere, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare presto là da dove si è giunti”[5].

La sfida di questo articolo consta nel ripensare il concetto di vita: l’appello alla sacralità, di stampo cristiano, è ancora valido? Essere vivi è sufficiente a teorizzare che sia giusto vivere? Perché non accogliere l’invito antinatalista a decostruire tanta venerabilità? Perché non mettere in discussione la vita? Perché non dovrebbe esser legittimo considerare la nascita una sofferenza evitabile?

Perché reggere in vita?
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?

[...]
Questo io conosco e sento
che degli eterni giri
che dell'esser mio frale
qualche bene o contento
avrà fors'altri; a me la vita è male.
[...]
È funesto a chi nasce il dì natale[6].


  1. D. Benatar, La difficile condizione umana. Una guida disincantata alle maggiori domande esistenziali, a cura di Luca Lo Sapio, Giannini Editore, Napoli 2020, p. 21. ↩︎

  2. Genesi 9, 1-3. ↩︎

  3. D. Benatar, Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo, trad. it. A. Cristofori, Carbonio Editore, Milano 2018, p. 7. ↩︎

  4. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, pp. 31-32. ↩︎

  5. Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224-1237. ↩︎

  6. G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, in Canti 23. ↩︎


Bibliografia:

  • Benatar D., La difficile condizione umana. Una guida disincantata alle maggiori domande esistenziali, a cura di Luca Lo Sapio, Giannini Editore, Napoli 2020.
  • Benatar D., Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo, trad. it. di A. Cristofori, Carbonio Editore, Milano 2018.
  • Cioran E. M., L’inconveniente di essere nati, Adelphi, Milano 1991.
  • Marcucci S., Kant e la “sacralità” della vita, in JSTOR, 12/1999, pp. 171-173.
  • Nietzsche F., La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1977.
  • Savarino L., Sacralità della vita: decostruzione o articolazione?, in “Filosofia politica”, 3/2009, pp. 429-452.