Aporia temporale
Il presente, secondo Aristotele, non è parte del tempo: esso è un mero limite fra passato e futuro. Di questi, però, il primo non c'è più e il secondo non c'è ancora: come è possibile, quindi, che esista il tempo? Un'aporia lunga 2000 anni a cui qui si dà, senza pretese, una possibile risposta.
«Il passo successivo a quanto si è detto consiste nell’affrontare il tempo. In primo luogo è bene formulare le aporie[1] relative ad esso anche secondo i discorsi noti: se sia da annoverare tra le cose che sono o tra quelle che non sono, e quindi quale ne sia la natura. Si potrebbe sospettare, dunque, che esso non sia affatto, o che sia a malapena ed in modo oscuro, a partire da queste considerazioni: una parte di esso è stata e non è, una parte sarà e non è ancora».[2]
L’enigma sollevato da Aristotele è, fuor di dubbio, durissima sfinge: se il tempo è fatto di ciò che non è più e di ciò che non è ancora, allora è impossibile che sia.
Da una parte, ovvero per quanto riguarda il futuro, sembrerebbe impossibile dare torto al filosofo. Tuttavia, la parola che Aristotele usa in riferimento a ciò che non vi è più è γέγονε (ghègone): una forma di perfetto, dunque, e nel greco antico il tempo del perfetto indica non tanto l'azione verbale in sé, quanto lo stato di cose che si è venuto a creare conseguentemente ad essa.
Così οἶδα (òida), la cui radice esprime il concetto di vedere, è il sapere qualcosa in quanto di tal cosa si è avuta esperienza; in tal modo il tempo che è stato – γέγονε – può essere visto come portatore di un frutto, e tale frutto è il tempo che viviamo.
Guardando le stelle nel cielo notturno troviamo un esempio: la luce che vediamo ora è stata emessa da una stella migliaia di anni fa. Quella stessa stella, nel nostro ora, potrebbe essere già morta.
Da un lato, dunque, vi è un passato che non è, dominio della stella morta; dall’altro, invece, un passato che γέγονε, cioè che è stato e tuttora in qualche modo è, pur se «a malapena e in modo oscuro».
Il suo simbolo è la luce della stella, che ci meraviglia ancora. Se tutto, del resto, è nato da una gigantesca esplosione, noi di essa portiamo ancora il segno.
Mi sia lecito, dunque, concludere che il passato è stato, ma permane, e nel suo permanere è: pertanto, il tempo stesso esiste in quanto esiste almeno una delle sue parti.
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