La violenza di genere è un flagello e un tabù sociale: la sensibilizzazione e l'educazione sono il primo passo per costruire il cambiamento
Fra le pagine dei quotidiani e i post delle home Instagram della maggior parte di noi, si trovano continuamente articoli e contenuti inerenti a uno dei temi più caldi che interessano l'attualità: la violenza di genere. Ciò che però risulta davvero scottante forse è che, a pensarci bene, questo tema non è per niente attuale. Ripercorrendo velocemente il corso della nostra storia, risulta infatti che questo tema è tutt'altro che recente. Pare essere un tratto insisto nella nostra costruzione sociale, qualcosa di dato che proviene da un punto X e che spinge ancora molti a tagliare corto sul tema sentenziando con frasi fatte, che in fin dei conti "è sempre stato così, bisogna stare attente."
Ma raccogliendo questa sentenza e spogliandola della patina di passività che la ricopre, non si può non fermarsi un attimo a chiedersi: "Così come?"
Come ci siamo ritrovate a ritenere necessario e, con la forza dell'abitudine, normale uscire di casa da sole e dover stare al telefono con un'amica, condividere la posizione live tramite il localizzatore dello smartphone, cambiare marciapiede, tenere le chiavi in mano fino alla porta di casa, fare quell'ultimo pezzo di strada al buio correndo sperando che non sia davvero l'ultimo? Che cortocircuito si è creato nella catena evolutiva per arrivare a un'epoca storica in cui convivono le app di dating e lo stesso retaggio culturale sulle differenze di genere degli anni Cinquanta?
La risposta si trova proprio in quell'asserzione di partenza, in quel "è sempre stato così." Se è sempre stato così, allora forse non sono le dating app, le grandi città, le frequentazioni sbagliate, l'essere state poco attente. Si tratta di ben altro: è il peccato originale che ha macchiato di un nero indelebile la società dei nostri padri e che filtra tra le fibre delle generazioni impregnando anche la nostra.
Il passato non si può di certo cancellare, però si può leggere, guardare, analizzare e decidere di non reiterarlo. Il paradosso di questa lotta straziante che incombe ogni giorno è che si tratta di una lotta alla violenza che deve necessariamente essere combattuta con altre armi.
Spesso il discorso su questo tema si diffonde attraverso slogan, icone, immagini simboliche il cui impatto immediato è sicuramente forte e imprescindibile per permettere al tema di diffondersi nel modo più rapido e ampio possibile. Eppure è necessario fare un passo in più: se lo slogan svolge il compito di attirare l'attenzione, è necessario che, varcata questa soglia, ci sia un assetto di contenuti, forme e discorsi che trattenga sul tema.
Bisogna iniziare a comunicare davvero, guardare in faccia il singolo membro della società e fargli capire che la violenza non è in un piatto lanciato o in uno schiaffo. La violenza è nell'indifferenza, nel nascondersi dietro alla convinzione di pensieri come "io non sono così", che giustificano e legittimano una coscienza che non è in grado di accettare l'esistenza di abomini di cui si sente parlare continuamente. Eppure essi persistono e si reiterano senza sosta, anche se non abbiamo il coraggio di guardarli direttamente.
La violenza è non accorgersi o non volersi accorgere della violenza stessa, che nella sua forma più esasperata è un atto concreto, ma il pericolo che procura risiede nel fatto che essa vive in tanti piccoli pensieri e azioni, apparentemente innocui che "tanto non fanno male a nessuno", perchè non sono schiaffi e botte. Eppure, queste azioni e pensieri, ordinati come diligenti soldatini, sono la base di un sistema gerarchico che proprio a partire dalla radice legittima, crescendo, azioni sempre più abominevoli.
È possibile dunque abbattere un sistema che vanta un insedio millenario?
Associazioni, gruppi, servizi di ascolto, numeri di emergenza, centri di accoglienza sono il primo baluardo da fortificare per sanare questa ferita storica. Fra queste soluzioni ce n'è una su cui però vale la pena di puntare tutto il resto delle risorse disponibili. Comunicare, educare, sensibilizzare: pensieri e azioni che diventino quotidiani, che vengano reiterati giorno per giorno ai bambini, nelle scuole, nelle università, sul posto di lavoro. Aggirare il buco nero dell'oblio e impedire a questi discorsi di caderci dentro ed essere liquidati con formule e frasi fatte proprio come quelle sopracitate.
La cultura e l'arte combattono per questa causa in prima linea: a tale proposito, il regista e attore Edoardo Leo ha presentato l'uscita del suo ultimo film, Non sono quello che sono, nelle sale dal 14 novembre. Si tratta della riproposizione dell'opera di William Shakespeare Otello ma ambientata in un contesto contemporaneo e parlata in dialetto romano e napoletano. E che cos'è l'Otello se non la storia di un amore maledetto dalla gelosia, che assorbe avidamente tutto ciò che c'è di meraviglioso in questo sentimento, lasciando soltanto rabbia e violenza?
Di nuovo la storia silenziosamente si palesa e si siede quieta, in attesa di essere attenzionata: come sostiene il regista stesso, nonché motivo che lo ha spinto a selezionare questa opera per eseguire la sua produzione, se nel XVII secolo un autore come Shakespeare rifletteva su questo tema, cosa ci sfugge nel 2024?
Queste e altre domande hanno animato i dibattiti inseriti nel contesto del tour svolto da Edoardo Leo nelle università italiane per promuovere l'uscita del film e per riflettere insieme ai giovani, protagonisti di questa scena, sull'importanza del tema. Ciò su cui Leo stesso riflette è una statistica ufficiosa svolta durante le tappe del tour: il maggior numero di spettatori presenti agli eventi sono donne e ragazze. All'evento programmato per la data di Bologna dunque la presentazione si apre chidendosi: "Dove si trova il pubblico a cui vogliamo parlare? Perchè la proporzione non è equilibrata?" Proprio da questa prima riflessione emerge il vero tema: lo scopo è abbattere quel muro protettivo che isola la propria coscienza nel comfort del pensiero "io non sono così" e trasmettere l'importanza del non considerarsi più soltanto un Io nello spazio ma un Io in una comunità, il cui equilibrio dipende da ognuno dei suoi membri.
L'unica vera arma che resta allora non è un'arma ma un investimento: investire sulla sensibilizzazione e sull'educazione rispetto a questo tema è il primo seme da piantare e coltivare con cura, convincendosi e credendo che un giorno germoglierà e dovremo essere pronti a difenderlo ad ogni costo dalle intemperie e della avversità. Ci vorrà del tempo perchè il germoglio diventi quercia e si stabilisca su radici solide e robuste, ma la chioma verde e le fronde rigogliose arriveranno solo se ci prenderemo cura, dal giorno zero, di quel germoglio.
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