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L’alluvione in Emilia-Romagna ha causato la morte di sedici persone e innumerevoli danni psicologici ed economici. Questa situazione tragica e drammatica, però, può essere un’occasione per riflettere sulla definizione di casa e su un altruismo che apre a una nuova fiducia nell’umanità.

Io mi chiamo Clara, sono nata e cresciuta in Romagna e la mia casa è asciutta e integra. Uno dei miei migliori amici si chiama Filippo, è nato e cresciuto in Romagna, proprio come me, e a casa sua il 19 maggio c’era un metro e mezzo di acqua. Nei primi giorni dopo l’alluvione siamo stati tutti invasi da un senso di disperazione, di vuoto disarmante, di angoscia che ci ha fatto rabbrividire e sentire persi. La tragicità di un momento in cui l’unico pensiero che assale è “non ho più niente” e lo spaesamento che esso porta con sé hanno annientato la tranquillità e le speranze di migliaia di persone. L’alluvione in Emilia-Romagna conta infatti più di 23.000 sfollati e un numero ancora maggiore di case danneggiate. Sulla drammaticità di questo evento e sull’enormità dei problemi e disagi che ha causato, per non menzionare il dolore per le sedici vittime, non c’è ombra di dubbio. La mia famiglia è stata colpita in primis e il mio intento non è quello di sminuire in alcun modo i danni emotivi, psicologici ed economici subiti. Ho deciso, però, di cercare di rendere questa tragica situazione un’occasione per riflettere sulla definizione di casa e per cercare una flebile luce nella speranza che questa sofferenza non vada totalmente sprecata. Mi è parso infatti che, nella difficoltà, la Romagna si sia risvegliata, trasformandosi in una grande casa, costruita sul senso di comunità, appartenenza e protezione. Ognuno ha cercato di far del bene agli altri senza voler ricevere nulla in cambio, ognuno ha cercato di donare un piccolo mattone per fornire quella sicurezza e accoglienza che stanno a fondamento di una casa.

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Pochi giorni dopo l’esondazione del canale, è arrivato un messaggio di Filippo:

Ciao
Chiunque abbia voglia di venire a darmi una mano per tirar fuori dei mobili è ben accetto.
C'è da bagnarsi...

La sofferenza causata dall’impotenza, che Filippo ha nascosto dietro a un velo di ironia, era invece evidente nello sguardo e nelle parole della sua mamma, alla quale scivolavano giù dagli occhi lacrime di rabbia, dolore, frustrazione e riconoscenza ogni volta che qualcuno la sfiorava con il suo tocco. Ed è stato osservando la reazione della famiglia di Filippo davanti agli oggetti, per la maggior parte rovinati o distrutti, che con una catena di montaggio portavamo fuori dalla loro casa, che ho capito che un po’ i Pinguini Tattici Nucleari hanno ragione quando cantano che “le case in fondo sono solo scatole dove la gente si rifugia quando fuori piove”. Il dolore, infatti, non era causato dalla perdita materiale, ma quello che ho avvertito in loro, e che ho avvertito io stessa nella casa alluvionata dei miei nonni, è stata una sensazione di vita andata perduta, di momenti andati buttati, di una parte di identità andata scomparsa. La casa, infatti, oltre ad essere un rifugio, è una sorta di contenitore al cui interno è racchiusa una parte significativa della nostra storia e in cui vediamo riflessi noi stessi.

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Secondo la definizione da vocabolario l’identità è un termine filosofico indicante in generale “l’eguaglianza di un oggetto rispetto a sé”; secondo la definizione enciclopedica l’identità in psicologia è “una delle caratteristiche formali dell’io che avverte la propria uguaglianza e continuità nel tempo come centro del campo della propria coscienza; è il senso e la consapevolezza di sé come entità distinta dalle altre e continua nel tempo”.

Per questo, la casa è un po’ lo specchio della nostra identità e ciò che consente e facilita la formazione di quest’ultima in quanto fornisce quegli elementi di continuità che ci consentono di riconoscerci come identici a noi stessi nonostante i costanti mutamenti. Come afferma David Hume nel primo libro del Trattato sulla natura umana, infatti, la nozione di identità personale deriva unicamente dalla nostra necessità di trovare principi di unificazione anche dove questi non sono realmente presenti, tanto che attribuiamo un'identità unica, semplice, indivisibile, a percezioni distinte e mutevoli. Secondo Hume, l’io è soltanto un fascio di percezioni che si susseguono con una notevole velocità e variabilità, in un movimento continuo. Nonostante questo, però, ogni volta che vediamo una vecchia foto siamo in grado di riconoscerci e lasciamo che gli altri ci attribuiscano delle azioni compiute nel passato, rendendo evidente che riscontriamo una relazione fra l’io del presente e l’individuo della foto scattata nel passato. David Hume ritiene che l’intelletto non colga mai alcuna connessione reale fra gli oggetti, ma che sia la nostra mente ad unire le idee tramite i principi associativi di somiglianza, contiguità spazio-temporale e causalità. Pertanto, anche la nozione di identità personale dipende da questi principi, in particolare da quello di causalità, e qui la memoria gioca un ruolo fondamentale in quanto è la condizione di possibilità che consente l’emergere di queste relazioni. Il ruolo della memoria è, infatti, quello di conservare l’ordine e la posizione delle idee, perciò questa facoltà va ritenuta l’origine dell’identità personale (non tanto come ciò che la produce ma come ciò che la scopre) in quanto è l’unica che ci consente di riconoscere la continuità e l’estensione di questa mutevole successione di percezioni che caratterizza il nostro io.

Per questo, chi ha perso la propria casa e ha visto gli oggetti che rappresentavano i ricordi di una vita intera andare distrutti, ha sentito di aver perso una parte del proprio io, di quel senso di continuità fondamentale per il riconoscimento di se stessi come entità indivisibili. La mamma di Filippo è, infatti, scoppiata in una risata quasi liberatoria davanti al materasso nuovo di zecca e decisamente costoso che è stata costretta a buttare, mentre le si è stretto il cuore davanti alla foto del suo matrimonio, uscita dalla sua casa tutta acciaccata e malconcia, svuotata della sua vitalità e violata nella sua sacralità.

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L’assistere a questi momenti, insieme al rinnovato senso di unione sperimentato dalla mia famiglia nella reazione al disastro causato dall’alluvione nella casa dei miei nonni, mi ha fatto comprendere che “casa” significa molto altro rispetto a quello che il dizionario Treccani definisce come “costruzione eretta dall’uomo per propria abitazione”. Ho compreso, infatti, che non sono gli oggetti a definire una casa e nemmeno i mattoni di cui è costruita. I veri mattoni di una casa sono, invece, la storia di chi vi abita e i ricordi che consentono il costituirsi della loro identità personale grazie al senso di continuità che garantiscono, insieme a particolari vibrazioni e sensazioni. La gettata di cemento che unisce questi mattoni è fatta di protezione, accoglienza, riconoscimento e sicurezza. La casa è quel luogo in cui ci si sente di potersi mettere a nudo, ma può anche essere il luogo della condivisione, della comunità, dell’aiuto disinteressato o il luogo in cui ci si ricarica e si ritrovano la forza e l’energia. Per questo molti degli sfollati, grazie alle azioni e all’atteggiamento di chi si trovava intorno a loro, si sono sentiti accolti e parte di qualcosa di più grande, si sono sentiti a casa.

Infatti, nonostante purtroppo questo sembri quasi sconvolgente a causa l’individualismo imperante della nostra società, le persone si sono mobilitate anche per aiutare chi non conoscevano. Volontari da tutta la Romagna e da tutta Italia sono partiti con stivali nei piedi e vanghe in spalla per fornire sostegno pratico e psicologico a chiunque fosse in difficoltà, passando di porta in porta chiedendo di poter dare una mano. Centinaia di persone hanno organizzato cucine improvvisate e nutrito con piadina, cappelletti e tagliatelle chi stava sciogliendo il fango con il proprio sudore, per ricaricare le loro energie e per creare un senso di convivialità e di famiglia. In ogni luogo colpito c’era poi chi portava da bere e da mangiare e chi offriva una battuta, una pacca sulla spalla o un semplice sorriso. Le persone hanno creato nuove migliaia di case sopra alle macerie.

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Crediti: @romagnolipopoloeletto/Instagram

La drammaticità di questa catastrofe naturale non si è conclusa, le case non sono ancora pronte per essere nuovamente abitate e le persone non stanno ancora bene. Ora, anzi, sono abbandonate a se stesse perché si pensa che non abbiano più bisogno. Non è così. Serve agire ancora, serve vicinanza, serve che venga nuovamente fornito loro quel senso di casa che hanno perduto. Perché, abbandonate davanti alle loro case vuote e ammuffite e ai loro ricordi scomparsi, si stanno spezzando una ad una quelle persone che erano state protette da quelle piccole case costituite di amore incondizionato e disinteressato.

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Crediti: @romagnolipopoloeletto/Instagram

La reattività e l’altruismo degli abitanti della Romagna, però, hanno riacceso la mia fiducia nell’umanità. I loro gesti hanno dimostrato che l’individualismo, la competizione e il profitto non hanno vinto. Il mio papà conserva un video di venti sconosciuti che, arrivati con pompe e idropulitrici, hanno rimosso l’acqua dalla cantina dei miei nonni che non ci sono più e ci hanno consentito di salvare qualcosa del poco che ci restava di loro. La mamma di Filippo ci ha abbracciato uno per uno, ci ha ringraziato con le lacrime agli occhi e con il suo sguardo ci ha fatto capire di essersi sentita vista, riconosciuta e accolta. E tutto questo, per molti, è già abbastanza.

È passato un mese e mezzo e Filippo nella sua casa ancora non ci può tornare. Filippo, però, quando pensa ai suoi cari e quando ci guarda, sorride perché si sente a casa.

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La mamma di Filippo a quello che ho scritto ha risposto così:

Mi è sembrato di tornare a quella domenica, una giornata surreale, che è superfluo dire che non dimenticherò mai...nei suoi colori, di una bellezza spettacolare...il cielo limpido, il verde della nostra siepe, il riflesso dell'acqua, il tutto avvolto all'inizio in un silenzio irreale come se davvero ogni forma di vita fosse improvvisamente scomparsa, poi riempito da risate che si sovrapponevano a parole di incoraggiamento, a parole di sconforto e di nuovo a risate...
Il tutto facendo la cernita del salvabile e di ciò che non valeva nemmeno la pena caricare in macchina.
E hai ragione quando scrivi della sensazione di impotenza nel vedere le proprie cose lasciate sull'asfalto e nei sacchi neri, quando fino a pochi giorni prima avevano una loro collocazione, un loro spazio che definiva la loro storia, ma anche la nostra.
Sembra ieri perché il pensiero in queste settimane spesso torna li, sembra passato un sacco di tempo perché adesso ci stiamo ricostruendo un’altra vita, che fondamentalmente è la stessa vita ma è anche un’altra perché forse noi in parte non siamo più gli stessi...ma è vero sorridiamo, ci ridiamo su, cerchiamo di trovarci un lato ironico, perché noi siamo fatti così...abbiamo delle crepe ma le teniamo nascoste, perché poi ognuno ha le proprie e non è una gara a chi sta peggio, ma ad un guardare avanti e a darsi coraggio.

Grazie.

Bibliografia: