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"Da Restivo a Turetta: un'indagine fra due casi di femminicidio" di Olga D'Apuzzo - Parte prima

Tutti oramai hanno presente la storia di Elisa Claps. Ciò che però, alla fine, accomuna il racconto di tutti è la sua conclusione: Danilo Restivo. Si potrebbe riflettere a lungo sul perché le vittime vengano quasi sempre dimenticate: ciò vale anche per gli innumerevoli casi di femminicidio.

Tutte le volte in cui mi è stato chiesto da dove venissi ho risposto timidamente “Potenza”, quasi come se me ne dovessi scusare, per poi proseguire: “è il capoluogo della Basilicata ma nessuno lo conosce. Sì, è al sud ma fa sempre freddo, è il capoluogo di Regione più alto d’Italia”. E la mia presentazione finiva lì, non che ci fosse molto altro da raccontare.

Eppure, negli ultimi tempi, Potenza è salita alla ribalta, suo malgrado, per una storia che in città tutti sapevano. In particolare, la mia città ha visto i riflettori puntati a seguito del podcast “Dove nessuno guarda: il caso Elisa Claps”.

Tutti a Potenza hanno presente la storia di Elisa: chi la conosceva di persona, chi ha vissuto gli anni più concitati dei processi, chi l’ha solo sentita narrare. Sono racconti e testimonianze che si stratificano di anno in anno, dal 1993. Ciò che però, alla fine, accomuna il racconto di tutti è la sua conclusione: in un modo o nell’altro, si finisce sempre per parlare di lui, di Danilo Restivo.

Si potrebbe riflettere a lungo sul perché le vittime vengano quasi sempre dimenticate, relegate ad un puntino sulla cartina che cerca di ricostruire il profilo del killer, tanto nella versione dinamica del caso quanto nei suoi aspetti psicologici. 

Alla fine, questo meccanismo non è altro che il risultato del fascino che la cronaca nera ha sul pubblico: la precisione dei dettagli, il racconto e l’indagine sulle vite private delle vittime, la quotidianità e la normalità di certi gesti o luoghi concedono, in un certo qual modo, una speranza allo spettatore e una possibilità di scappare da quelli che sono “i problemi di tutti i giorni”.

Il crimine, soprattutto se efferato, diventa un evento eccezionale, in grado di coinvolgere più delle difficoltà quotidiane, che appaiono irrisolvibili, e diventa una chiave di volta per sfuggire dalla realtà.

Come brillantemente sottolineato dalla Dott.ssa criminologa Isabella Merzagora 

«Il paradosso è che alla fine tutto questo è liberatorio. L’interesse per stupri e omicidi è in continuo aumento, e non risparmia i dettagli più scabrosi, intimi, in una sorta di pornografia del crimine che nulla aggiunge alla ricerca della verità. Nelle tribune televisive tutti si sentono autorizzati alla disamina pubblica delle prove, sfiorando spesso il processo sommario. E il rispetto per le vittime diventa un optional. Francamente indecente».
Le vittime, quindi, subiscono l’ulteriore ed ignobile danno di venire oscurate dal carnefice, ed è compito e dovere dei media occuparsi della cronaca nera con criterio e con competenze specifiche. E questo vale per tutte le vittime, di cui va raccontata la “storia” e non il “caso”(termini che, a livello colloquiale, possono risultare simili ma che semanticamente fanno tutta la differenza). 

Ciò vale anche per quanto sta accadendo in questi giorni riguardo alla storia di Giulia Cecchettin. Giulia, Elisa e altre innumerevoli donne vittime di femminicidio.

Ma cos’è, da un punto di vista giuridico e criminologico, il femminicidio?

In sintesi, donne che muoiono in quanto donne. Nella pratica, il termine femminicidio è ormai divenuto un contenitore terminologico che racchiude in sé le problematiche socio-culturali dell’essere donna e che culminano con la sua uccisione.

Fu Diana H. Russell, criminologa femminista, ad utilizzare per la prima volta nel 1992 il termine “femmicidio”, dall'inglese femicide, in senso criminologico per indicare le uccisioni delle donne, in quanto tali, da parte degli uomini. Secondo quanto formulato da Diana Russell “il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l'esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”.

Il ricorso a tale neologismo, dunque, altro non è che un modo per distinguerlo dal generico fatto di omicidio: la fattispecie, a livello giuridico, è la stessa ma è sul piano criminologico che si sostanzia tutta la differenza.

Difatti, se da un lato l’ordinamento italiano non pone alcuna differenziazione giuridicamente rilevante tra i due eventi, dall’altro lato i due fenomeni hanno radici e giustificazioni profondamente diverse. Il femmicidio, infatti, trova il suo fondamento nel modello socio-culturale patriarcale, in cui la donna occupa una posizione di subordinazione, divenendo soggetto discriminabile, violabile, uccidibile. 

L’uccisione della donna in quanto donna rappresenta l’emblematica espressione del potere soggiogante dell’uomo nella sua massima efferatezza, fondato sulla disuguaglianza di genere: è una piaga che affligge la nostra società fin dai primi albori della civiltà.

Se si prova a guardare indietro, la violenza di genere è un fenomeno con cui abbiamo sempre dovuto fare i conti: lo ritroviamo nella letteratura antica, nei drammi e nei poemi greci, nelle opere liriche. Ci viene infatti come fosse un lascito testamentario, una vergogna di cui l’uomo (inteso come essere umano) non riesce a liberarsi. Da tempo immemore le donne sopportano il peso della secolare sottomissione agli uomini e affrontano lo sforzo di abbattere gli ostacoli per esercitare i diritti fondamentali di qualsiasi essere umano; ostacoli che ancora oggi, talvolta, si ergono come barriere architettoniche, frutto di meccanismi sempiterni, sociali e culturali, che incatenano la donna a una posizione di subordinazione.

E tale dato è ulteriormente provato, anche empiricamente, se si tiene conto che il femminicidio non è un fatto isolato che accade improvvisamente, ma è l’atto finale del cosiddetto "ciclo di violenza", (di cui parleremo a breve).

Per potere comprendere, in un’ottica criminologica e giuridica, lo sviluppo della violenza di genere e l’instaurarsi del ciclo della violenza, è necessario evidenziare la complessità del fenomeno, sia da un punto di vista definitorio sia nei suoi aspetti naturalistici: i maltrattamenti non sono un unicum, isolati e/o episodici, bensì si manifestano in modi disparati e variabili nel tempo; la stessa giurisprudenza ha necessitato di tempo per circoscrivere effettivamente cosa si intendesse per maltrattamenti.

Tant’è che anche il legislatore li ha disciplinati come “reati abituali”, cioè reati che, per poter integrare la fattispecie delittuosa, necessitano della reiterazione delle condotte nel tempo.

Tendenzialmente, le condotte maltrattanti che attengono al genere si possono suddividere in tre sottocategorie: violenza fisica, violenza psicologica e violenza economica. Affinché si possa parlare di maltrattamenti non è necessario che si verifichino tutte queste forme di violenza sopra descritte: la violenza domestica, esercitata tramite i maltrattamenti, non si esplica in una condotta unitaria ma in un insieme di comportamenti, anche diversificati, posti in essere con continuità nel tempo, con la specifica che, in genere, i primi comportamenti devianti non sono particolarmente violenti ma si aggravano con il trascorrere del tempo e con il conseguenziale processo di adattamento della vittima. 

Ed è proprio all’interno delle mura di casa che la donna diventa la vittima privilegiata (insieme eventualmente ai figli): è così che si crea il paradosso per cui la domus familiae, luogo eletto di affetti e serenità, diventa l’incubo terreno, il luogo pericoloso in cui vivere e dove la violenza è “legittimata”. Per troppo tempo la famiglia è stata idealizzata e di fronte alle manifestazioni di violenza, percepite come questioni intime e private, la coscienza sociale ha erroneamente chiuso gli occhi percependole come questioni intime e private dei coniugi.

 

Ora, proprio perché il fenomeno è insito nella società e difficile da riconoscere, in criminologia si fa riferimento a due modelli interpretativi: il “Ciclo della Violenza”, elaborato da Leonor Walker nel 1979, e “La ruota del Potere e del Controllo (“Power and Control Wheel”), frutto del lavoro del programma Duluth, in Minnesota. Prendiamo ora in analisi il primo.

Nel 1979 Leonor Walker mette a punto un modello (utilizzato ancora oggi nei centri antiviolenza) che evidenzia come la violenza si instauri seguendo un ciclo, che consente ai comportamenti abusivi di instaurarsi, evolversi e susseguirsi, con l’obiettivo da parte dell’abusante di ottenere il controllo della vittima. Il ciclo è costituito da diverse fasi: 

• La prima fase si caratterizza per un accumulo di tensione, in cui è possibile osservare un climax ascendente di tensione. Nella coppia si attuano comportamenti ostili e possessivi, tendenzialmente di tipo verbale, volti ad ottenere il controllo sulla donna, per la quale inizia il processo di smaterializzazione dell’identità. Tale smaterializzazione diventa poi fattore di vittimizzazione per condotte successive ancora più violente, che infatti si verificano nelle fasi a venire. 

• La seconda è la fase dell’esplosione: è il momento che, in linea di massima, dura meno rispetto alle altre fasi ma è anche quello più pericoloso per la donna (e per gli eventuali figli), perché la tensione precipita in uno scoppio violento e la vittima è maggiormente esposta a situazioni di pericolo.

• La terza fase è quella della riconciliazione: l’uomo maltrattante ha paura di perdere la donna su cui fino a quel momento ha esercitato il controllo; pertanto, tenta di trovare delle giustificazioni al suo comportamento usando motivazioni esterne (disagio, frustrazione, malattia). Sono comprese qui tutte le formule verbali utilizzate dagli uomini violenti che cercano di ricondurre le violenze ad un episodio isolato: “non accadrà più”, “è tutta colpa di…”.

Questo è momento delicato per la donna: necessita di aiuto, è debole ed è ormai isolata. Il rischio è il paradosso: proprio colui che fino a quel momento ha abusato di lei e l’ha maltrattata diventa il salvatore, l’unico in grado di darle supporto e protezione.  

• La quarta fase è denominata da Walker “Luna di miele”: l’uomo e la donna si sono riavvicinati e così il primo compie concreti gesti d'amore nei confronti della seconda (regali, promesse, testimonianze di amore). 

È proprio a questo punto che che ritorna la ciclicità della violenza: è sempre l’uomo violento a decidere modi e tempi della serenità nella coppia, e la pace è solo una parentesi temporale più o meno ampia. Al primo nervosismo la tensione ricomincia a salire e il ciclo riprende. 

All’instaurarsi di ogni nuova fase di violenza (alternata da momenti di apparente serenità) per la donna maltrattata è sempre più difficile rompere il cerchio: da un punto di vista psicologico cerca di convincersi che la violenza sia solo un episodio isolato, minimizza le violenze e impara a giustificarle, fino ad arrivare alla autocolpevolizzazione.   

La dispercezione della donna diventa anche condizione di sopravvivenza: non si pone più in contrasto con l’abusante, si adegua per continuare a vivere.  

Ancora ancora una volta, il leitmotiv è il ruolo culturale e sociale della donna: nella gran parte dei casi i meccanismi sopra citati di giustificazione della violenza vengono messi in atto da donne che vivono in un ambiente che non le ritiene soggetti capaci di autodeterminazione. La donna, percepita come debole all’interno della società in cui è inserita, imparerà a sua volta a vedersi nello stesso modo: il contesto diventa uno specchio per la vittima, che sovrappone punto di vista del maltrattante e quello del maltrattato.

Confusione e ambiguità sono le parole chiave per comprendere la situazione che si instaura: i desideri, i sentimenti e i valori delle due persone che formano la coppia si mischiano e si confondono sul piano della realtà; poiché è l’uomo abusante ad avere il controllo sulla donna abusata, sono i parametri del primo a prevalere. E il ciclo purtroppo continua.

È naturale, oggi, che il nostro pensiero vada a Giulia Cecchettin. Tutte le notizie che, finora, sono pervenute in merito alla sua storia sembrano ripercorrere il ciclo della violenza finora descritto. È certamente presto per spingersi oltre, bisognerà aspettare il processo e le sue ricostruzioni. Anche dal punto vista criminologico occorrerà attendere per poter comprendere scientificamente il profilo di Filippo Turetta. 

Eppure, il tema del femminicidio nel caso di Giulia Cecchettin e nel caso di Elisa Claps può essere declinato diversamente.

Per un parallelismo tra le due vicende, la prossima settimana uscirà la seconda parte di questo articolo: cosa accomuna e cosa invece differenzia le vittime di queste tragedie, Elisa Claps e Giulia Cecchettin? E cosa invece, Danilo Restivo e Filippo Turetta?

Olga D’Apuzzo, classe 1998. Laureata in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e diplomata con Master di II livello in Scienze forensi (criminologia – investigazione – security – intelligence) presso l’Università la Sapienza di Roma.

Se vuoi leggere di più sul caso Claps ​e sulla dirompente risposta della città di Potenza alla riapertura della Santissima Trinità, la chiesa nonché il luogo dell'omicidio e del ritrovamento del corpo di Elisa, clicca questo link:

Il delitto di Elisa Claps: per non smettere di “guardare”
Dopo diciassette anni dalla sua scomparsa, il corpo di Elisa Claps fu ritrovato nel sottotetto di una delle chiese più “prestigiose” nel centro di Potenza, dove nessuno avrebbe mai guardato, dove il male (dicono) non dovrebbe possedere mai potere. Oggi la stessa chiesa è aperta al culto.