Il teatro, si sa, non gode di buona salute e, invece di medicarlo, il Ministero gli somministra il cianuro: il 30 giugno sono usciti i verdetti della commissione teatro con cui è stata deliberata la fine del teatro pubblico.
A qualcuno potrà forse sembrare strano ma il teatro, oggi, è più importante – direi più necessario – di sempre. Nel tempo della virtualizzazione del mondo, il teatro appare come uno dei pochi luoghi in cui, ancora oggi, si può stare in presenza e in compagnia di corpi vivi. Nel tempo in cui le facoltà di Filosofia sembrano tralasciare il pensare prediligendo la corsa alla pubblicazione sulle riviste scientifiche di fascia A, il teatro rimane uno spazio dove si può ancora esercitare il pensiero critico. In un panorama che annulla il possibile in funzione del necessario, il teatro si rivela un deleuziano espace quelconque: spazio qualsiasi, un luogo in cui – per dirla con le parole di Franco ‘Bifo’ Berardi – si può vivere, insieme, in amicizia, il tempo della fine.
Per capire cosa sta accadendo al teatro facciamo un esempio: immaginiamo un giovane liceale che ha bisogno di una borsa di studio per acquistare i libri per studiare. Per accedere al finanziamento (pochi soldi che gli permettono di comprare i testi usati), però, deve avere almeno una media del 7. Mettiamo un attimo da parte l'ingiustizia della meritocrazia e concentriamoci sul fatto che il ragazzo, per i primi tre anni di scuola, non ha alcun problema a ottenere la borsa di studio perché ha da sempre una media molto alta, ipotizziamo del 9,74. Il quarto anno, invece, cambiano quasi tutti gli insegnanti del suo Liceo e questi cominciano a guardare con sospetto quel ragazzo. Anzi, a dire il vero, sviluppano proprio una certa antipatia per questo studente, per il suo pensare in modo acuto, per le idee strane che ha in testa, tipo quella di voler cambiare le cose. Così, i docenti decidono di abbassargli i voti: la sua media scende a 6.03 e il ragazzo non può più usufruire della borsa di studio.
In modo molto simile all’esempio proposto, i teatri e i festival, per ricevere i fondi ministeriali (si parla di cifre che spesso somigliano a elemosine), devono essere valutati dal Ministero. Funziona così: c'è una tabella con vari parametri, e un punteggio che va da 0 a 35. Per ottenere i contributi pubblici ci vogliono almeno 10 punti. Quindi, in poche parole, è successo questo: alcuni teatri e festival (è il caso del rinomato Santarcangelo dei Teatri) che hanno sempre preso un punteggio molto alto, per esempio 29 su 35, si ritrovano improvvisamente con un punteggio inferiore a 10, insufficiente per ottenere i fondi pubblici. Come spiega molto bene Laura Bevione su Artribune, il declassamento è dovuto soprattutto all’inserimento di nuovi criteri di valutazione come la “congruità gestionale” che si articola in due parametri: il rapporto tra costo totale dell’attività e numero di spettatori, e quello tra incassi totali dell’attività e numero di spettatori. Dunque, a essere mortificata è la scena pubblica – quella che ha un “rischio artistico” più alto – in favore della scena commerciale, generalista, che prospetta più incassi.
Questo stravolgimento del sistema di valutazione non è solo una questione tecnica: è il riflesso di una scelta politica. I tagli non sono solamente l’esito dell’adesione alla dottrina neoliberista da sempre insofferente a tutto ciò che è pubblico (da molti anni, ormai, siamo abituati a governi che cercano di smantellare il welfare). In questi tagli al teatro c’è il desiderio di indebolire un luogo che il governo percepisce come ostile. C'era da aspettarselo, è vero. Però, poi, quando le cose succedono, si arriva sempre impreparati, quasi ci si sorprende. Il teatro, oggi, non è una delle priorità del paese, perché, a quanto pare, di questi tempi, ce ne sono altre, come il riarmo, la guerra, la progettazione delle morti.
Questo smantellamento del teatro pubblico si inserisce in un progetto governativo molto più ampio che punta a castigare quella cultura che viene percepita come “di sinistra” in funzione di un’ascesa della “cultura di destra”. Al disprezzo per gli intellettuali di Salvini (che sbeffeggiava chiamandoli “professoroni”), il governo Meloni oppone invece un piano preciso contro quell’egemonia culturale che è, da sempre, una fissazione per la destra postfascista.
L’esecutivo, che non sembra capace di mantenere le promesse di sovranità (l’Italia è infatti uno dei Paesi più assoggettati alle volontà degli Stati Uniti d’America), sta puntando molto sulla questione culturale. Dopo aver conquistato la televisione di Stato, sferrato attacchi al cinema (il Ministro Giuli ha recentemente detto che Cinecittà, prima del loro intervento «era come l’URSS»), incentivato mostre molto ideologiche e poco scientifiche come Tolkien. Uomo, professore, autore e Il Tempo del Futurismo (entrambe ospitate dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma), dopo aver stravolto la ricerca universitaria sopprimendo l’Abilitazione scientifica nazionale, la nuova destra adesso punta al teatro. Il barocco discorso di insediamento del Ministro Giuli in cui affioravano elementi di evoliana memoria (Andrea Colamedici ne ha fatto un’analisi su Domani) preannunciava dei cambi di rotta, e oggi assistiamo ai risultati.
In questo clima di politicizzazione della cultura, avvengono strani fenomeni: è di questi giorni una vicenda che ha visto protagonista Antonio Moresco il quale, in un lungo articolo in cui si riportano estratti inventati dai suoi libri, viene etichettato come “scrittore di destra”. Come sempre, in Italia, come direbbe Ennio Flaiano, la situazione è grave ma non è seria.
Il teatro, però, tra tutti i dispositivi culturali, è forse il più fragile. Togliere i fondi pubblici significa condannare a morte il teatro pubblico. In ballo non c’è solo la sperimentazione ma sono a rischio anche molti posti di lavoro. Per questo lunedì 7 luglio si è tenuta l’Assemblea dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo sotto lo slogan “Vogliamo tutt’altro”. La speranza è quella della convergenza – così come hanno insegnato i lavoratori della GKN nella loro lotta –: con l’abbattimento del teatro pubblico cediamo un pezzetto di democrazia, se rinunciamo a questo ci perdiamo tutti, ci perdiamo tutte.
Comments ()