La comunicazione intersoggettiva è alla base del rapporto con l'altro e con il mondo. Affinchè questa sia costruttiva e valida bisogna analizzare prima i soggetti che ne fanno parte.
In un'epoca come la nostra in cui siamo circondati da comunicazione, diretta e indiretta, abbiamo sviluppato metodi veloci ed efficienti per relazionarci con il mondo e con l'altro, dove quindi comunicare è illusoriamente facile attraverso i social, le pubblicità, le immagini e gli articoli. In realtà, però, tra le persone è diventato molto più complicato. Spesso sono giunta a chiedermi, grazie all'esperienza in prima persona e di altri, quale fosse il metodo comunicativo migliore per esprimermi con il mondo e con gli altri in modo da non intaccare la sensibilità o non essere fraintesa. In primis, analizzando il mondo circostante, ho potuto constatare che viviamo in una società dove è molto più importante l'interesse individuale che il bene comune, dove vige più il detto "vita mea, mors tua". Ma come è possibile che ci sia una comunicazione valida e costruttiva? Anzi, partendo con ordine, cos'è la comunicazione?
La comunicazione è tale quando dall'altra parte vi è qualcuno che ascolta.
L'incontro con l'altro è quindi fondato, secondo Paul Guillaume critico e letterario francese del '900, su di una comunità di mete, di oggetti: "Il terzo termine tra l'altro e me sarà il mondo esterno, gli oggetti a cui si rivolge l'azione dell'altro, come la mia. Idea profonda e feconda: non siamo consapevoli prima del nostro corpo, ma delle cose: lì è una quasi ignoranza delle modalità dell'agire, ma il corpo è muto di fronte alle cose".
Per Guillaume questo è possibile grazie al primordiale "egocentrismo
incosciente" che permette al bambino l'identificazione con l'altro, la totale
apertura verso l'esterno. Questa identificazione iniziale ha i caratteri di una
vera e propria indifferenziazione; il bambino non è altruista né individualista, ma entrambe le cose nello stesso tempo. Il sé s'ignora fintantoché è al centro
del mondo. Si cerca di fondare il rapporto con l'altro sulle cose, ma
potrebbe benissimo essere proprio la presenza dell'altro a servire il
cammino verso le cose. Dunque si cerca di rapportarsi all'altra persona come ci si rapporta alle cose e agli oggetti, sottovalutando che è proprio il rapporto con l'individuo che apre le porte a nuove prospettive verso le cose del mondo.
La questione del rapporto tra l'io e l'altro si presenta quindi come una questione piuttosto problematica per il pensiero: infatti, per pensare l'altro in maniera adeguata dovrei poter pensare me stesso, per così dire, dal di fuori, o in altre parole abdicare alla mia soggettività. Insomma, vi è un certo solipsismo insuperabile. Nonostante ciò il darsi dell'altro è un fenomeno irrefutabile, del quale tutti facciamo costantemente esperienza. La percezione dell'altro, quindi, comincia rendendosi conto che io vedo gli altri, non come oggetti fisici nel mondo, ma come soggetti per lo stesso mondo che io esperisco. In virtù di una "perception «latérale»", dunque, gli altri si danno sempre in rapporto a me, presentandosi come degli alter-ego. Allo stesso modo, l'altro mi appare come un individuo che esercita una volontà o potere su questo mondo, parallelo al mio, del quale non posso avere esperienza concreta ma solo una percezione esterna differentemente. Il pensiero dell'altro, quindi, mi appare come «lacuna» nel mio campo d'esperienza. Ma questo non basta; per porre realmente la presenza dell'altro, è necessario "per andare oltre, per penetrare veramente nel suo campo, se voglio affinare fino in fondo l'esistenza degli altri".
Per questo motivo, si potrebbe andare più a fondo alla questione ponendo
in evidenza come nella percezione del comportamento è il mio corpo a rivelarsi quale luogo di quella comprensione e dunque è tramite l'azione dell'altro che io comprendo le sue intenzioni e i significati delle sue azioni. Ma la percezione dell'altro va oltre la semplice percezione del gesto o dello «stile» altrui. Rimane infatti da mostrare come sia possibile per l'io rappresentare l'altro come un altro io - in altre parole, come sia possibile che la monade ovvero un soggetto chiuso e completo in sé conosca altre monadi, e quindi altri soggetti altrettanto indipendenti e completi.
Secondo Husserl esiste un atto capace di rendere "co-presenti" le monadi, di
effettuare un "accoppiamento originario" tra la mia esperienza primordiale, la mia corporeità, e la corporeità altrui: si tratta di una "appresentazione" ovvero un atto tramite il quale io riconosco una somiglianza in primis nella corporeità. Quando l'altro si rende presente al mio campo percettivo, il suo corpo viene percepito immediatamente come rassomigliante al mio. Si attua una "trasposizione appercettiva proveniente dal mio corpo", definita anche "trans-comprensione intenzionale", la quale rende possibile che i dati accoppiati vengano saputi nello stesso tempo "insieme e pure distintamente".
Allo stesso modo, noi esperiamo i sentimenti e la volontà altrui con la stessa certezza dei nostri, la nostra percezione interna non è limitata a processi psichici che ci appartengono ma abbraccia l'intero regno esistente delle anime - in un primo tempo come un flusso inarticolato di esperienze.
Gli altri mi sono inaccessibili: infatti, la percezione che io ho di uno stato d'animo altrui non sarà mail equiparabile all'esperienza che quella persona farà di se stessa. Infatti io sono l'unico ad avere completamente accesso a me stesso, e valendo la stessa cosa per gli altri, questi mi sono inaccessibili. Questo implica che «in un primo tempo» l'uomo vive più negli altri che in se stesso; più nella comunità che nel proprio individuo. La coscienza di sé e dell'altro, riconoscendosi nelle proprie espressioni e realizzando le proprie intenzioni con i mezzi espressivi di cui dispone, emerge da questa corrente indifferenziata. Non, però, perché vi sia una serie di addizioni di contenuti psichici a un mondo popolato di cose, un'"animazione" dell'ambiente che ci circonda. Ma, viceversa, il processo di apprendimento consiste in una progressiva "disanimazione": "una continuata delusione sul fatto che soltanto alcuni fenomeni sensibili dimostrano di essere funzioni rappresentative dell'espressione, altre invece no". Scheler introduce la nozione di «evidenza emozionale», secondo la quale non possiamo realmente divenire l'altro, e rinunciamo a esserlo intenzionalmente attraverso le espressioni mediante le quali egli si dà a noi.
Approfondendo il problema della relazione con l'altro siamo ricondotti alla nozione di espressione e portati a percorrere una sorta di circolo. Prendendo come esempio l'apprendimento del linguaggio, siamo dunque portati a intenderlo come un processo che non è basato sull'identificazione con l'altro ma è al
contrario l'atto nel quale ha luogo l'identificazione con l'altro. La coscienza
si sviluppa perciò correlativamente allo sviluppo del linguaggio.
Questo viene confermato da alcune peculiarità del linguaggio infantile, quali la confusioni dei pronomi e il netto privilegio concesso al nome altrui rispetto al proprio. Il bambino comincia a pronunciare il suo nome molto più tardi dei nomi delle persone che lo circondano e il pronome io è utilizzato molto dopo il pronome tu. Questo però non deve spingere a pensare che l'acquisizione di queste parole possa giocare il ruolo di causa nello sviluppo della coscienza di sé, né, d'altra parte, può essere ritenuta puro effetto di determinate esperienze: si tratta evidentemente di un'azione reciproca, nozione ed espressione si incontrano nella parola, un'azione reciproca. Alcune ricerche nel campo della patologia psichica e della psicologia dell'infanzia confermano la stretta relazione messa in luce tra intersoggettività e linguaggio. Gli studi sull'allucinazione verbale di Lagache mostrano che questo fenomeno non dipende, come vorrebbe l'interpretazione tradizionale, da una auto-eccitazione dei centri nervosi. I soggetti affetti da questo tipo di patologia sono coscienti della differenza che contraddistingue l'allucinazione e la percezione autentica, che non possono pertanto essere ricondotti l'una all'altra. Inoltre, l'allucinazione è accompagnata da movimenti, visibili o latenti, dell'apparato di fonazione, fatto che riconduce la parola percepita nell'allucinazione alla parola propria.
Il problema quindi viene a essere quello di comprendere come possa accadere
che la parola propria, quella che è ordinariamente intesa come un dialogo
interiore, sia percepita da soggetti malati come parola proveniente dall'esterno, dagli altri. La parola è quindi essenzialmente una relazione a due: in ogni istante io mi ricordo che grazie alla parola sono messo in presenza di un altro me stesso. In conclusione, vi è parola (e dunque personalità) solo per un «io» che porta in sé questo germe di spersonalizzazione.
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