Per quanto ormai parte della nostra vita quotidiana, i social media nascondono ancora zone d’ombra. Tra esse lo sharenting, ovvero il complesso fenomeno per cui i bambini diventano il content dei creators e fonte del loro guadagno.
Se ogni rivoluzione determina virtualmente cesure nella storia dell’uomo, tali da poter distinguere più o meno chiaramente un “prima” e un “dopo”, tanto si può dire anche per la cosiddetta Rivoluzione digitale. A partire dagli anni ’50, la crescente innovazione tecnologica ha innescato un processo inarrestabile e pressoché globalmente esteso di trasformazione digitale, che ha repentinamente investito la totalità degli ambiti dell’umano cambiandone il volto. Da ARPANET al World Wide Web, dai primi PC militari agli smartphone, dalle prime piattaforme sociali al metaverso, dall’online banking alle criptovalute, da Wikipedia a ChatGPT, dalle AI più elementari all’automazione industriale: a seguire le traiettorie arzigogolate di tale cambiamento si fa spesso fatica. I settori produttivi si sono quindi notevolmente moltiplicati, con la contestuale introduzione di nuovi modelli di business e di figure professionali, spesso inseribili nella categoria di lavoro digitale, la cui produzione di valore si fonda per l’appunto sull’utilizzo delle ICTs, acronimo di Information and Communication Technologies.
Un esempio di lavoro digitale è quello dei content creators, la cui attività principale consiste nella produzione di contenuti perlopiù audio-visivi di tipo informativo e/o di intrattenimento, per il tramite di piattaforme social e/o streaming (Instagram, TikTok, Twitter, Youtube, Twitch), con cui raggiungere una platea più o meno ampia di followers. La possibilità di generare profitto nell’influencer marketing è vincolata tanto al bacino di utenza, che idealmente non scende sotto l’ordine delle migliaia[1], quanto a una serie di dinamiche commerciali, come collaborazioni remunerate, pubblicità, sponsorship, abbonamenti, rispetto alle quali le piattaforme svolgono una funzione intermediaria.
Che il proprio obiettivo sia o meno di ricavarne guadagno, scopo degli influencers - sinonimo più o meno accurato di content creators - è quello di raggiungere il maggior numero di spettatori possibile, ovvero di rendere il proprio prodotto virale. Impresa ardua, ma non impossibile. Instagram, per esempio, nel 2023 ha raggiunto l’incredibile cifra di 2.35 miliardi di utenti, con una media giornaliera di utilizzo di 24 minuti per utente[2]. La piattaforma si serve di molti algoritmi, il cui scopo è però sostanzialmente lo stesso: assicurarsi l’interesse dell’utente, il suo engagement, e di conseguenza il prosieguo dell’impiego del social. Dal sito di Instagram, leggiamo: “Across all of Instagram, our algorithm relies on ‘signals’ based on how you interact with the app, and how other people interact with you” (NdA su Instagram, il nostro algoritmo si fonda su ‘segnali’ basati sul modo in cui interagisci con l'app e sul modo in cui le altre persone interagiscono con te)[3]. I segnali, dunque, orientano il processo di ranking[4], cioè di individuazione e classificazione di quello che probabilmente l'utente vedrà nella sua schermata social, in base a un interesse accertato, presunto oppure auspicato.
Per rendere i propri contenuti virali, dicevamo, bisogna garantirne l’attrattività, anche a fronte dell’enorme offerta di intrattenimento. Non sorprendentemente, tra i molteplici fattori che concorrono alla viralità di un contenuto troviamo anche la risposta emotiva che esso è in grado di generare, soprattutto se con un alto grado di intensità[5]. Un esempio di reazione emotiva familiare alla maggioranza delle persone è quella nei confronti dei bambini, così come dei cuccioli di animale, soggetti che definiremmo dolci, teneri, o, nella letteratura scientifica internazionale, cute (“carino”).
Numerose ricerche condotte nel corso di decenni hanno infatti dimostrato come, da un punto di vista evolutivo, la cuteness di infanti e animali sia in grado di scatenare emozioni positive e pro-sociali, genericamente di amore, simpatia, felicità. Fu l’etologo austriaco Konrad Lorenz negli anni ’40 a proporre per primo l’espressione “baby schema” allo scopo di definire questo tipo di dinamica, collegandola all’emergere di istinti parentali e dunque di innate reazioni di cura (caregiving)[6]. Studi recenti[7], tuttavia, riconducono tali reazioni positive alla tendenza al comportamento sociale e di gruppo. In particolare, ci si è serviti dell’espressione sanscrita di “kama muta” (“mosso dall’amore”) per descrivere un sentimento positivo e intenso che si viene a creare nel fare esperienza (diretta o meno, reale o meno) di rapporti fondati sulla condivisione ‘comunitaria’ (communal sharing). In altre parole, quanto è cute facilita l’interazione sociale e i sentimenti positivi intorno a essa. Di conseguenza, non sorprende come, nell’analizzare il fenomeno rispetto al contesto dei social media, sia stato verificata la diretta proporzionalità tra la cuteness di un contenuto online e la reazione positiva che da essa deriva.
È senz’altro capitato almeno una volta a ciascuno di noi di aver visto foto o video di bambini sui nostri social media, magari tra i contenuti suggeriti, e di averli giudicati carini, divertenti o simpatici. Ciò non è inusuale e di per sé nemmeno un male. Cosa succede, però, quando la condivisione dei propri figli sulle piattaforme social diventa sistematica, persistente, programmatica e addirittura una fonte di reddito? È il caso dello sharenting, neologismo inglese formato dall’unione di (to) share (condividere) e parenting (genitorialità). Si tratta di un fenomeno in rapida diffusione, in cui i profili social di famiglie perlopiù giovani e con figli diventano canali di condivisione quotidiana e pervasiva della vita dei propri membri, soprattutto dei più piccoli. Lo sharenting può presentarsi sia in forma moderata, in cui il bambino è “semplicemente” ripreso in vari momenti della propria quotidianità, della propria interazione con il mondo e con la famiglia, sia in forma estrema, in cui lo osserviamo letteralmente impegnato in performance, balletti, pose, dialoghi forzati, sulla base spesso dei più recenti trend di Instagram e TikTok. Riassumendo, nello sharenting il content dei creators diventano i figli.
Il margine di guadagno è prevedibilmente importante, e non solo per le pubblicità e le collaborazioni rispetto a vestiti e prodotti per l’infanzia e per la casa; attraverso la condivisione pressoché costante della vita familiare e dei bambini ci si garantisce seguito ed engagement. E non soltanto perché questi contenuti infondono tenerezza, ma anche perché, conoscendone la quotidianità, ci sembra in qualche modo di conoscere anche le famiglie ritratte. Si crea quasi naturalmente un sentimento di familiarità e quasi di affetto, nonostante la paradossalità del tutto. Si veda il caso della famiglia Ferragnez, con annessi figli piccolissimi conosciuti sin dalla nascita da almeno 30 milioni di utenti Instagram (italiani e non).
I figli, dunque, diventano parte integrante se non addirittura essenziale del processo di produzione di profitto[8] e per questo motivo non ci sembra un'esagerazione definirlo una forma di lavoro inconsapevole, se non addirittura di sfruttamento. Il bambino in quanto tale è dotato di capacità giuridica dalla nascita, ma, poiché ancora minore, non di capacità di agire[9]. Chi ne detiene responsabilità genitoriale, di conseguenza, svolge una funzione di rappresentanza anche legale, ed è obbligato al suo mantenimento, alla sua educazione e complessivamente al suo benessere[10]. Inoltre, l’età minima per l’accesso al lavoro minorile è fissata ai 16 anni, con eccezioni normate, come nel caso del lavoro nello spettacolo in cui, in ogni caso, questo non può inficiare sul benessere e sullo sviluppo del bambino[11]. Dunque, il bambino è sì un minore per il quale qualcun altro decide, ma è anche un soggetto investito da diritti e il cui eventuale lavoro nelle modalità descritte finora andrebbe regolamentato.
Le implicazioni problematiche dello sharenting non si arrestano all’impiego dei figli all’interno di dinamiche economiche. Tra queste vanno ricordate anche il diritto alla privacy e all’immagine di fatto continuamente violati, l’incapacità dei minori di fornire consenso consapevole, il venirsi a creare di un archivio digitale pressoché eterno dell’identità dei bambini, il loro potenziale disagio psicologico, i rischi di crimini legati alla pedo-pornografia.
Insomma, la serietà dell’intera questione è tale da necessitare risposte legislative, come peraltro si è in parte proposta di fare la Francia di recente, con riferimento però solo al diritto all’immagine e non alla fattispecie del lavoro. Quello che invece possiamo fare noi internauti moderni è prendere coscienza di tali e tanti meccanismi perversi, di cui lo sharenting è solo un esempio, informarci, e magari smettere di seguire queste persone.
Si stima che content creators con meno di 10.000 followers vengano pagati circa $80-$90 a post, meno di 100.000 intorno ai $200 per post, tra i 250.000 e i 500.000 circa $670 per post e più di 1 milione $1900 per post. Fonte: Demandsage (https://tinyurl.com/2spxykmm). ↩︎
Fonte: Demandsage (https://tinyurl.com/2spxykmm). ↩︎
https://creators.instagram.com/grow/algorithms-and-ranking. ↩︎
Per approfondire: https://about.instagram.com/blog/announcements/shedding-more-light-on-how-instagram-works?ref=shareable. ↩︎
Per approfondire: Berger, J., Milkman, K. L., What Makes Online Content Viral?, in Journal of Marketing Research, 2012, 49(2), pp. 192–205. DOI: https://doi.org/10.1509/jmr.10.0353. ↩︎
Per approfondire: Stavropoulos, KKM, Alba, LA. "It's so Cute I Could Crush It!": Understanding Neural Mechanisms of Cute Aggression., in Front Behav Neurosci, 2018 Dec 4;12:300. DOI: 10.3389/fnbeh.2018.00300. PMID: 30564109; PMCID: PMC6288201. ↩︎
Per approfondire: Golonka, E.M., Jones, K.M., Sheehan, P., Pandža N.B., Paletz S.B.F., Rytting C.A., Johns M.A., The construct of cuteness: A validity study for measuring content and evoked emotions on social media, in Front Psychol., 2023 Mar 3;14:1068373. doi: 10.3389/fpsyg.2023.1068373. PMID: 36935945; PMCID: PMC10020712. ↩︎
Per approfondire: Kojok, B., Reinventing Child Labour: A Contemporary Analysis of Children’s Participation in the Digital Labour Economy, Major Papers, University of Windsor: Windsor, ON, Canada, 2022. ↩︎
Art. 1 c.c. e art. 2 c.c. ↩︎
Art. 316 c.c. e art. 320 c.c. ↩︎
Per approfondire: https://www.wikilabour.it/dizionario/tipologie-contrattuali/lavoro-minorile/. ↩︎
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