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Conversazioni in via Petroni

Via Petroni è quel dubbio luogo del tessuto urbano bolognese di cui tutti parlano in modo mistico appena si arriva a Bologna. Nell'ordine mi sono sentita dire che via Petroni è il luogo di risse, un accoltellamento, dopo le sei diventa un'apocalisse zombie e il gin lemon del Lupulus costa 3.50€.

Conversazioni in via Petroni
Il Cucchiaio d'Oro, meta prediletta dei fuorisede bolognesi, in via Petroni. 

(Ogni riferimento a cose o persone è puramente intenzionale)

Via Petroni è quel dubbio luogo del tessuto urbano bolognese di cui tutti parlano in modo mistico appena si arriva a Bologna. Nell'ordine mi sono sentita dire che via Petroni è il luogo di risse, un accoltellamento, dopo le sei diventa un'apocalisse zombie e il gin lemon del Lupulus costa 3.50€. Tutto vero. A metà circa di via Petroni sorge un bar dall'aspetto anonimo che attira flotte di fuorisede al grido di "Spritz e tigelle!". Grido al quale, ovviamente, non mi sono sentita di rinunciare. Seduta su una panchina del Cucchiaio d'oro, non posso fare a meno di condurre con un occhio le mie osservazioni antropologiche sulla curiosa fauna che attraversa la via, e con un orecchio seguire il filo del discorso che si svolge intorno a me. Discorso che generalmente si apre con la solenne sentenza dell’amica intenta a sorseggiare uno spritz: “Ho pensato a una cosa che vorrei esporvi”. L’assemblea è convocata, l’amica in cerca di pareri ha la nostra attenzione. Oggi ci domandiamo, come canta Capossela, Che coss’è l’amor.

Un pensiero, per primo, si affaccia alla mia mente: le consulenze amorose sono sempre autoreferenziali. Il nostro vissuto tragicomico è la nostra stessa deformazione professionale. Ne ho la conferma ascoltando le risposte che la testa riccia alla mia sinistra e quella bionda alla mia destra sviscerano e nelle quali ritrovo tratti dei loro episodi di vita che mi hanno timidamente confidato in altre sedi. Poco importa: la nostra assemblea non ha pretese di oggettività o neutralità scientifico-accademica; in fin dei conti, ha sede pur sempre in via Petroni. Chiedersi cosa sia l’amore presuppone anche  dover guardare ai propri trascorsi (ricerca interiore che solitamente si rivela, se non vana, quantomeno confusa) nella speranza di raccogliere uno straccio di consiglio da dare agli occhi imploranti dell’amico o dell’amica di turno in preda ai dubbi che ti scruta dicendo: “E quindi secondo te, cosa devo fare?”. E in quegli occhi che ora mi fissano in attesa, in quella domanda che tutti noi abbiamo posto ad altri o a noi stessi e che contempla un oceano di possibili risposte, riesco a trovare poche certezze da fornire. Con un orecchio continuo ad ascoltare, mentre i miei pensieri scivolano via veloci.

Tornano alla mia mente le battute del finale di Perfetti Sconosciuti (perché lo ho visto decine di volte) e ad un Marco Giallini tanto semplice quanto sincero che ci ricorda che “siamo frangibili, tutti, chi più, chi meno”. E realizzo che se siamo qui seduti a interrogarci a vicenda sulla natura delle nostre emozioni, forse è proprio perché ognuno di noi riconosce in sé questa fragilità, questa contingenza, ed è avvolto da quel leggero velo di dubbio di fare o dire la cosa sbagliata alla persona a cui tiene. E di fronte alla presa di coscienza di questa fragilità la reazione è generalmente un sottile senso di paura, uno spillo che ci fa arrovellare più del dovuto. Ci domandiamo a che pro il rischio, a quale prezzo, a quale ferita siamo pronti a esporci? Andrà bene? Andrà male? In sottofondo la conversazione si è diretta verso il tema della gelosia. Monologo di testa bionda: l’assemblea sembra approvare in un cauto silenzio. Esce un ragazzo con delle patatine fritte in mano: realizzo che ho fame.

Recupero il filo dei miei pensieri. Temiamo che dalla nostra fragilità di fronte (e a causa di) quelli a cui teniamo derivi il peggio, ma nell’atto stesso di porci questo dubbio dimentichiamo qualcosa di grande e di imprescindibile: di questa fragilità, semplicemente, non possiamo mai farne a meno. Non vi è rapporto o relazione umana che tessiamo che non abbracci in sé il rischio della catastrofe. E fra tutte, lo stesso amore, per essere tale, contempla necessariamente in sé anche la possibilità di finire, di andare e mandare in pezzi sé stesso. Se l'amore non accoglie questa possibilità non è più tale, ma diventa possesso. E qui il mio pensiero scivola da Giallini a Rilke (curiosa accoppiata): “Non una bara debbon essere le nostre mani: solo un letto su cui le cose dormono il crepuscolo del sonno e fanno sogni, dalle cui profondità parlano le loro intimità più care e nascoste”. Una mano che stringe ciò che desidera è una mano che fa sfiorire nella sua presa: non più una mano, ma una bara. Un amore che cerca di intrappolare chi ha di fronte è un amore destinato a una rapida rovina. Ancora qualche parola di Rilke nella mia memoria: “nel nostro guardare è il nostro più vero conquistare”. Mi annoto mentalmente di cercare il resto dei versi una volta a casa. Amare richiede di tenere ben aperto il palmo della nostra mano, senza limiti od ostacoli.  Ci costringe a porci continuamente di fronte al rischio di andare a nostra volta in pezzi, e di osservare sotto il nostro sguardo l'oggetto del nostro amore scivolare via. E  dunque, solo nella capacità di accettare la possibilità della fine, solo nella capacità di lasciare andare un amore, solo nell'imparare a lasciarsi, sapremo di avere amato.

Le sessioni di dibattito con me stessa dentro alla mia testa, e con la combriccola dell’aperitivo al di fuori, sono concluse. Anche oggi qualche brandello di consiglio è stato partorito.  Verrà sistematicamente ignorato dal richiedente? È possibile. È la sorte di molti dei consigli dati con le migliori intenzioni. Saluto gli amici e mi dirigo verso casa. Via Petroni ha iniziato ad animarsi di studenti pronti a fare le ore piccole. Un ultimo pensiero mentre infilo le chiavi nella serratura: la prossima volta prendo le patatine fritte.


La citazione di Rilke è tratta dalla lettera del 9 marzo 1899, indirizzata a Elena Voronina e contenuta in R. M. Rilke, Poesie. I (1895-1908), edizione con testo a fronte, a cura di G. Baioni, commento di A. Lavagetto, Torino, Einaudi, 1994, p. 782. Il passo completo recita:

[...] nel nostro guardare è il nostro più vero conquistare. [...] Non si diventa ricchi perché qualcosa abita e sfiorisce fra le nostre mani, ma perché tutto scorre attraverso la loro presa come attraverso il solenne portale dell'ingresso e del ritorno a casa. Non una bara debbon essere le nostre mani: solo un letto in cui le cose dormono il crepuscolo del sonno e fanno sogni, dalle cui profondità parlano le loro intimità più care e nascoste. [...] Perché possesso significa povertà e angoscia; solo aver posseduto significa possedere senza paura.