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Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: una memoria continua

La violenza di genere è un problema diffuso e radicato nella società, che si presenta in varie forme, dalla violenza fisica alle molestie verbali.

Credo sia superfluo elencare utilissimi dati statistici, per farvi rendere conto di quanto sia sistematica e pervasiva la violenza patriarcale nella nostra società. Per quello, è sufficiente accendere la tv su un qualunque tg durante la giornata, per essere consci del fatto che, più o meno ogni quattro giorni, muore una donna per mano di un uomo. E non un uomo che non conosce, con cui non ha legami o non ne ha mai avuti, ma il più delle volte sono partner, ex-partner, padri, fratelli, amici o uomini con cui avevano instaurato un rapporto.
Non sono qui nemmeno per sottolineare come il femminicidio sia solo la punta di un iceberg enorme di cui le donne si devono fare carico tutti i giorni, perché anche qui è sufficiente domandare a qualsiasi persona che si identifica nel genere femminile se si sente sicura a camminare per una strada poco illuminata la notte, o se ha mai avuto paura che sue foto private venissero condivise in modo non consensuale dall’ex fidanzato, o ancora, se ha mai subito cat-calling camminando per strada.
Ecco, in occasione del 25 novembre vorrei fare solo una piccola riflessione su quanto sia normalizzato e radicato, per noi donne, subire violenza semplicemente interfacciandoci con la vita e, di conseguenza, portando in giro il nostro corpo. Per farlo, mi aiuterò raccontando un episodio.
Avevo diciannove anni, mi ero appena trasferita a Bologna e stavo facendo un giro di perlustrazione della città con la mia nuova coinquilina. Era autunno, pieno giorno. Indossavo una maglia bianca, sopra alla quale avevo un cardigan nero per ripararmi dal primo freschetto autunnale. Stavamo passeggiando serenamente, osservando quella che sarebbe stata la città che ci avrebbe accolte per i successivi anni. Dal verso opposto del marciapiede su cui eravamo, veniva verso di noi un signore che poteva esserci padre, data l’età che sembrava dimostrare. Mentre continuavamo a chiacchierare tra di noi, sentiamo un commento che definire raccapricciante è un eufemismo: «Con questa magliettina bianca, quasi trasparente ti si vede quel bellissimo reggiseno, sei proprio figa!». Ci ho messo un attimo per realizzare che stesse parlando di me. Il primo gesto che ho fatto, dopo aver chiesto conferma alla mia coinquilina che l’uomo si fosse rivolto a noi, è stato quello di chiudermi istintivamente il cardigan che indossavo, e subito dopo chiedermi come una semplicissima maglia bianca a collo alto potesse far scaturire queste reazioni in un uomo. Nel dubbio, non ho reagito.
Ecco, il punto di tutto questo racconto, sta proprio qui: non è stata la mia maglia bianca (che in controluce, magari, poteva risultare leggeremente trasparente) a dare il permesso all’uomo cinquantenne di molestarmi. No! È la leggerezza e la sicurezza con cui lui si è sentito leggittimato a mettermi in uno stato di sottomissione, come se il mio corpo fosse a sua disposizione per eventuali commenti o volontà.
L’aspetto problematico della faccenda è la natura del filo sottile che accompagna tutte le violenze di genere, di qualunque tipo esse siano, ovvero la relazione sbilanciata di potere, in cui l’uomo agisce violenza per dominare e ricercare un riconoscimento non più garantito come nel passato. L’uomo si sente in diritto di ricorrere alla violenza perché si percepisce vulnerabile e ha la sensazione di dovere difendere la propria identità. La violenza maschile contro le donne non è quindi un indizio del patriarcato, ma della sua crisi. È la risposta degli uomini alle trasformazioni sociali, al riconoscimento istituzionale dei diritti e delle libertà delle donne.
Senza essere tacciata di essere una Femminista isterica, vorrei aggiungere che sono fine a sé stesse le panchine rosse in università, le scarpette rosse sparse per la città, social ricolmi il 25 novembre di foto con i segni sotto gli occhi con il rossetto, se tutto questo non è accompagnato da un impegno educativo costante che deve partire già dall’infanzia. Se non si insegna cos’è il consenso, come gestire le proprie emozioni, come relazionarsi nei rapporti interpersonali, come si può pretendere un effettivo cambiamento?
È anche fondamentale fare attenzione a come queste violenze vengono narrate: se il punto di vista diventa quello della donna che ha subito violenza automaticamente cambierà il linguaggio, restituendo alla donna la sua umanità e la sua dignità. Raccontando la violenza dalla parte della donna si descrive la realtà sociale in cui viviamo e sulla quale è necessario intervenire. Utilizzando termini come “raptus”, “momento di follia”, “atto di gelosia”, si va a deresponsabilizzare la carica culturale che questi gesti misogini hanno e di conseguenza si deresponsabilizza chi li compie. È importante l’utilizzo preciso delle parole corrette.
Queste cose, le Femministe isteriche (e chi le supporta), lo urlano da anni. Generazioni di donne che si sono sentite dire che sono esagerate hanno dato strumenti per fronteggiare la cultura patriarcale. Se le donne di oggi riescono a riconoscere questa problematica, riescono a salvarsi o a sopravvivere, è solo grazie al loro impegno.
La violenza contro le donne non è solo un problema di numeri o di statistiche, ma un problema di cultura e di società. È un problema che si nasconde dietro la normalità della vita quotidiana, ma che deve essere affrontato con coraggio e determinazione. Non è un problema privato di chi lo subisce e lo esercita, ma è di tutti e solo attraverso la consapevolezza e la riflessione si può comprendere e provare a contrastare questo fenomeno.
Questa società non può più permettersi che la violenza contro le donne sia considerata normale o accettabile. È tempo di agire e di cambiare. È tempo di creare luoghi sicuri con persone consapevoli.