In un mondo fatto di individualismo, narcisismo e privatizzazione, la cooperativa sociale potrebbe essere la risposta ad un cambiamento necessario. Cosa potrebbe salvare la società se non la società stessa?
Nella Dichiarazione di identità cooperativa del 1995 a Manchester si legge che: “Una cooperativa è un’associazione autonoma di persone unite volontariamente per soddisfare le loro aspirazioni e bisogni economici, sociali e culturali comuni attraverso la creazione di una impresa di proprietà comune e democraticamente controllata.” Possiamo dire in generale, quindi, che la cooperativa è un soggetto economico in cui si combinano due distinte dimensioni. Da una parte: quella associativa, in cui persone diverse sono portatrici di bisogni specifici, ma accomunate da una motivazione pro-sociale. Dall'altra: quella imprenditoriale, ovvero il metodo, cioè la via per raggiungere a quegli scopi è quello di fare impresa, dando vita a un’organizzazione stabile dell’attività produttiva orientata al mercato.
La domanda adesso è: perché nascono le cooperative? Secondo Luigi Cascini ci sono due approcci che possiamo presentare per rispondere a questa domanda. Uno è quello che chiama demand side: la cooperativa nasce in risposta a dei bisogni sociali a cui sia le aziende pubbliche che private non sono riuscite a dare delle soluzioni adeguate. L’altro, che chiama supply side, segue l’idea secondo cui la cooperativa è creata e mantenuta in vita dalla decisione di persone, che pongono la libertà in cima al proprio sistema di valori.
Cosa si intende per libertà in una cooperativa?
- Cooperazione come libertà e egualità della persona.
Secondo il libro "A Theory of Justice" di Rawls, la giustizia sociale è intesa come equità. Essa segue e due principi fondamentali: il primo esprime l’idea secondo cui ognuno deve disporre di un eguale sistema di libertà fondamentali, mentre il secondo regola e modella la distribuzione dei costi e benefici della cooperazione. Esso definisce come uniche ingiustizie giustificabili quelle per l’accesso ai beni sociali primari (ovvero quelle che aiutano i gruppi sociali già in svantaggio nella società). Prendendo spunto da Rousseau, Salvatore Veca, professore di filosofia politica all’ università degli studi superiori di Pavia, nel libro "Beni comuni e cooperazione", porta avanti l’idea secondo cui i beni comuni sono un sottoinsieme dei beni sociali primari, come i diritti di cittadinanza democratica.
“Questi ultimi caratterizzano e tutelano lo status di agency di cittadini e cittadine intese come persone morali, libere ed eguali. I beni comuni generano un legame sociale fra i cittadini intesi propriamente come agenti e non come recettori o destinatari di benefici”.
Adesso un’altra domanda che possiamo porci è la seguente: qual è il rapporto tra il principio di libertà e quella della redistribuzione dei beni sociali primari? Il principio di libertà di per sé non ha nulla a che fare con il valore, infatti quest'ultimo dipenderà dalla distribuzione dei costi e benefici che hanno lo scopo di rendere le persone piu eguali possibili.
“L’equità nell’accesso ai beni sociali primari è richiesta dalla necessità di mantenere la promessa dell’eguale libertà per chiunque.”
La cooperativa sociale.
Le cooperative sociali in particolar modo si occupano, infatti, di erogare i beni sociali primari: tutto ciò che riguarda i servizi alla persona dalla prima infanzia alla terza età.
Ma come nasce questo modello? In Italia nasce nel 1960, ma si sviluppa solo a partire dagli anni '70, in seguito alla crescente domanda di servizi proveniente dalla società civile venutasi a scontrare con la crisi economica. Lo Stato si trova a fronteggiare uno squilibrio tra spesa pubblica e Pil che mal si concilia con i bisogni e le necessità della società civile. La società sta cambiando e con lei anche i suoi bisogni: nascono le “nuove povertà”, considerate tutta una categoria di persone fragili ai margini della società, che avvertiva problemi connessi alla sfera personale, psicologica e relazionale.
Si stabilisce così una necessità, ma non un’effettiva risposta, perché se da un lato questi bisogni creano la domanda, a cui la cooperativa sociale tenta di dare una risposta, dall'altro non è detto che questa sia duratura nel tempo. Infatti, da più parti si registra, soprattutto nella contemporaneità, una fatica delle organizzazioni cooperative a portare avanti un progetto culturale, sociale e politico e garantire la tenuta e la qualità dei servizi attivati nei vari territori.
La cooperativa oggi.
L'articolo 1 della legge 381/91 indica che:
“le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini.”
Analizzando il concetto di “interesse generale” sorgono alcune domande: è di interesse generale che qualcuno venda servizi alla domanda pagante nel settore degli asili nido o delle prestazioni per la non autosufficienza, perché il pubblico non interviene più? È interesse generale? Sotto certi aspetti sì, perché rispondere a bisogni insoddisfatti è comunque importante, sotto altri bisogna capire come si risponde a questi bisogni: se con un’attenzione al fine di permettere l’accesso anche ai più deboli o semplicemente fornendo servizi che consolidano le discriminazioni tra i diversi ceti sociali.
Verso il futuro…
C’è una direzione che la cooperazione sociale dovrebbe seguire? Il "dove andare" apre una duplice questione: di prospettiva e di metodo. La prospettiva è quella delle dinamiche sociali ed economiche e dei loro prodotti in termini di qualità della vita, cittadinanza, inclusione ed esclusione sociale. È necessario guardare cosa succederà nei prossimi anni nella società: è nel magmatico corpo sociale che si possono trovare le risposte per ripensare le cooperative. La società italiana, per esempio, è destinata nella sua struttura sociodemografica a implodere molto rapidamente. Ci saranno in una quindicina di anni cinque milioni in meno di abitanti e uno su tre avrà più di 65 anni. Questo pone un problema di riconversione radicale di spazi e processi di vita con l’emergere di tematiche completamente diverse da quelle attuali come la solitudine, la necessità di vivere in autonomia e la costruzione di nuovi servizi per l’invecchiare dignitoso.
Anche i processi educativi non avverranno più in larga parte, se mai ancora avvengono, in famiglia e a scuola, ma dipenderanno dall’educazione digitale dei ragazzi e delle ragazze. Questo a sua volta apre l’esigenza di riformulare l’offerta dei servizi educativi in modo radicale. Si potrebbe andare avanti su ogni fronte: l’impoverimento dilagante, la frantumazione dei legami sociali, le nuove disabilità e malattie…
La conclusione è che va riposto al centro del lavoro delle cooperative sociali il pensiero strategico, che non è qualcosa che si improvvisa . Al contrario, esse hanno a che fare con le competenze, gli strumenti e le capacità di agire delle imprese, di leggere i bisogni e costruire forme di rappresentanza reale degli stessi. Questo passaggio rimanda alla questione di metodo. Come fare a leggere i bisogni e la complessità sociale? È sufficiente l’esperienza acquisita per riuscire a capire quali sono i problemi da affrontare?
L’impressione è che a guidare la riflessione sui bisogni siano spesso le competenze acquisite nello svolgere specifici servizi e che vi sia una certa presunzione, da parte di non tutte, ma di molte cooperative e di non tutti, ma di molti cooperatori, di essere i titolari della lettura dei bisogni e della comprensione delle dinamiche sociali. Il coinvolgimento sostanziale dei cittadini, degli utenti/clienti e di altri attori, che esprimono punti di vista diversi da quelli prevalenti nei processi di analisi e progettazione degli interventi, è debole. Questo inevitabilmente porta a rappresentazioni dei bisogni stereotipate e che rischiano di essere codificate all’interno di schemi di lettura già consolidati, che replicano gli assetti esistenti dei servizi.
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