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#1 Esperimenti mentali: Il problema del carrello ferroviario

Il dilemma del carrello ferroviario è un esperimento mentale che indaga i modi e le ragioni per cui gli individui prendono determinate scelte morali: è moralmente corretto sacrificare una vita per salvarne altre? E se sì, siamo veramente in grado di farlo?

#1 Esperimenti mentali: Il problema del carrello ferroviario

Immagina di star facendo una passeggiata, quando, di fronte a te, si apre il seguente scenario: le rotaie del treno che stavi costeggiando durante la tua camminata si separano in due possibili percorsi, uno a sinistra e uno a destra. Aguzzando la vista noti qualcosa di allarmante: sulla rotaia che prosegue verso sinistra è legata, incapace di liberarsi, una persona. Ti appresti a correre a salvarla quando noti, guardando meglio, qualcos’altro: sulla rotaia di destra, nella stessa condizione, sono legate cinque persone. Pronto ad agire, senti dietro di te il fischio di un treno in arrivo. La locomotiva avanza rapida, troppo rapida perché tu possa riuscire a slegare tutti i malcapitati. Cosa fare? All’improvviso, una speranza: ecco di fianco a te una leva che potrebbe esserti utile! Speri sia un freno manuale, ma osservando meglio il meccanismo comprendi qualcosa di terribile: la leva devia il binario su cui sta correndo il treno, che ora punta alla rotaia su cui sono legate cinque persone, verso l’altro binario, su cui è legato un solo sfortunato. Se lasci la leva nella posizione in cui è ora, cinque persone moriranno e una si salverà. Se invece tiri la leva, una sola persona morirà.[1] Il treno ormai è qui: cosa scegli di fare?
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Il problema della rotaia, o trolley problem, qui presentato nella sua versione più semplice, è un esperimento mentale piuttosto conosciuto in filosofia - tanto da aver dato vita,oltre che a innumerevoli variazioni sul tema e ad un’area di studio tipica scherzosamente denominata trolleyology - a un acceso dibattito sul modo e le ragioni per cui gli individui prendono determinate scelte morali.

Se appartenete alla fetta di popolazione che con più o meno esitazione tirerebbe la leva e preferirebbe salvare la vita di cinque persone piuttosto che quella di una sola, sappiate che siete in buona compagnia: la maggior parte delle persone risponde così. Ancora, se appartenente a questa fetta di popolazione il vostro ragionamento deve essere stato più o meno il seguente: non potendo salvare tutti, è preferibile salvare cinque vite piuttosto che una, anche solo per il semplice fatto che dal punto di vista quantitativo, infatti cinque vite sono numericamente superiori a una. Il maggior guadagno possibile in termini di vite è quindi l’esito preferibile.

Se avete risposto in questi termini, vi rifate consapevolmente o meno a quella corrente filosofica, nata in Inghilterra nella prima metà dell’Ottocento, che prende il nome di utilitarismo. Secondo l’utilitarismo, il criterio di azione da adottare in ogni scelta morale è il cosiddetto principio di utilità, formulato da Jeremy Bentham, padre fondatore della corrente, nei seguenti termini:

Con principio di utilità si intende quel principio che approva o disapprova qualunque azione secondo la tendenza che essa sembra possedere ad aumentare o diminuire la felicità della parte il cui interesse è preso in considerazione, oppure, che è lo stesso in altre parole, a promuovere o ad ostacolare quella felicità.
(J. Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, I, 2, ed. 1982, 11-12).

L’utilitarismo è dunque, questa volta nelle parole di John Stuart Mill:

quella dottrina che accetta come fondamento della morale l’utilità, o il principio della massima felicità, (e che) sostiene che le azioni sono lecite in quanto tendono a promuovere la felicità e illecite se tendono a generare il suo opposto (J.S. Mill, L’utilitarismo, ed. 1988, 17).

Quando tale principio viene allargato ad una dimensione collettiva, utile è quindi ciò che garantisce il massimo benessere per il maggior numero di persone. Se Bentham avesse avuto quindi di fronte a sé un treno in corsa, avrebbe tirato la leva e salvato i cinque fortunati in nome di questa utilità.

La prospettiva utilitarista sembra quindi, in questo primo caso, fornire una risposta soddisfacente e congruente al comportamento della maggior parte delle persone di fronte a dilemmi di questo genere. Tuttavia, la saldezza di questa prospettiva inizia a vacillare di fronte ad alcune variazioni sull’esperimento di partenza.
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Immaginiamo ora una situazione tale e quale alla precedente in cui un treno in arrivo ci induce a scegliere tra la possibilità di salvare cinque persone oppure una, con una sola variazione: questa volta di fronte a noi non vediamo nessuna leva che possa aiutarci. Ci troviamo invece su un ponte sotto il quale corrono i binari del treno, e in nostra compagnia c’è un uomo molto grasso, talmente tanto che, se noi lo spingessimo giù dal ponte, questo arresterebbe il treno stesso e salverebbe le cinque vite. Ovviamente, nel fare ciò, l’uomo morirebbe nell’impatto. Anche in questo caso quindi i possibili esiti sono due: se non spingiamo l’uomo grasso il treno investirà cinque persone, se lo gettiamo nel vuoto morirà solo lui. Questa volta, cosa fai?

Da una prospettiva prettamente utilitaristica tra il primo e il secondo scenario non cambia assolutamente nulla: è sempre preferibile salvare cinque vite piuttosto che una. Nonostante ciò, le persone in questo secondo caso sono generalmente più restie nel propendere per sacrificare la singola vita in questione: come mai? O ancora, per chi avesse gettato l’uomo dal ponte senza troppi problemi, David Edmonds in Would you kill the fat man?**” propone un esempio più eclatante[2].

Secondo il Caso del Trapianto immaginiamo che ci siano cinque pazienti gravi in un Pronto Soccorso, che abbiano urgente bisogno di un trapianto di organi. Due di loro necessitano di reni, due di polmoni e uno un cuore. Tutti e cinque moriranno a meno che gli interventi non verranno realizzati in tempi brevissimi. Fortunatamente (non per lui), un uomo giovane, in salute e con il giusto gruppo sanguigno arriva in ospedale per il suo check-up annuale: il medico dovrebbe stordire e operare il giovane affinché i suoi organi in perfetta salute possano salvare le cinque vite a rischio? Come conclude Edmonds, “we are expected to find this proposal abominable”.

Dunque, perché, a fronte dello stesso esito in termini di vite salvate, riteniamo inaccettabile che una persona sana venga rapita fuori da un Pronto Soccorso al fine di salvare cinque pazienti ma non consideriamo altrettanto abominevole che qualcuno venga investito da un treno in corsa per lo stesso fine?

Il confronto tra questi scenari apre a diverse riflessioni interessanti. La prima è che innanzitutto la prospettiva utilitarista manca di cogliere qualcosa di fondamentale: ogni qualvolta ci venga chiesto di compiere delle scelte morali,ciò che per noi conta non è esclusivamente l’esito della nostra scelta, ma anche il mezzo con cui questo viene raggiunto. Tirare una leva è equivalente a gettare qualcuno giù da un ponte? Ha lo stesso “grado di responsabilità”?

La seconda osservazione riguarda invece un fatto pratico: ciò che stupisce è infatti che, sebbene le persone abbiano generalmente delle reazioni istantanee e inflessibili nel rispondere a dilemmi di questo tipo, quando vengono interrogate al riguardo, non sono immediatamente in grado di articolare il perché di tale risposta o di individuare un criterio razionale e preciso per la distinzione che hanno applicato. Non è sempre facile isolare e comprendere alla luce di quali principi morali compiamo determinate scelte, perché raramente questi appaiono isolati nella loro purezza, ma sono sempre mischiati ad altre considerazioni di diversa natura.

In realtà in filosofia modi per definire tale criterio, e conseguentemente per comprendere se tirare una leva sia equivalente a gettare un uomo da un ponte, sono stati proposti in misura sconfinata. La stessa “madre” del problema del carrello, Philippa Foot, ne propone uno in uno scritto del 1967 in cui discute il problema dell’aborto alla luce della dottrina del doppio effetto di Tommaso d’Aquino.

Secondo la dottrina del doppio effetto un’azione può produrre due tipi di conseguenze: quelle che l’agente intende come suoi fini, e quelle conseguenze che egli prevede ma in realtà non ha intenzione di compiere. La distinzione, seppur all’apparenza sottile, è estremamente utile all’interno della dottrina cristiana per fornire una giustificazione ad alcuni casi in cui il comportamento di chi agisce viola i principi morali del rispetto della vita, come i casi di legittima difesa o di aborto. Nel caso della legittima difesa, per esempio, l’azione di colpire il mio aggressore ha come fine da me inteso quello di proteggermi, e come conseguenza prevista ma non desiderata quella di ucciderlo. Allo stesso modo in nei casi di gravidanza in cui la vita della madre è a rischio, ed è necessario eseguire un aborto, il medico non intende direttamente interrompere la vita del feto, ma il suo fine è quello di proteggere la salute della donna. La morte del feto è quindi conseguenza prevista ma non intesa dell’azione del medico.

Alla luce di questa prospettiva, dunque, si può spiegare come, nel primo caso menzionato, dirigere il treno verso il singolo individuo abbia la conseguenza intesa di salvare le cinque vite, mentre abbia come conseguenza solo prevista ma non desiderata quella di causare la morte del singolo. Anche la dottrina del doppio effetto, come la visione utilitarista, presenta tuttavia i propri limiti.

Si potrebbe replicare infatti che, contrariamente allo scenario di partenza, nello esempio dell’uomo grasso, la morte dell’uomo è in un certo senso desiderata: se infatti nel primo per un puro caso di fortuna l’uomo legato alla rotaia riuscisse a slegarsi e liberarsi da solo, noi ne saremmo sollevati. Al contrario la morte dell’uomo grasso ci è necessaria al fine di salvare le vite altrui: se tentasse di scappare tale esito diventerebbe impossibile.

Il punto per risolvere il dilemma in realtà per Foot non è tanto quest’ultimo, quanto piuttosto la distinzione tra doveri positivi e doveri negativi degli individui: i doveri positivi sono doveri nei confronti degli altri, per esempio nell’aiutarli. I doveri negativi al contrario sono i doveri che gli individui hanno nel non interferire nelle vite degli altri (per esempio non uccidendoli o non rubando loro). I doveri negativi sembrano avere un peso maggiore rispetto a quelli positivi.
Nel caso del medico d’ospedale, per esempio, sebbene il chirurgo abbia un dovere positivo, consistente nel salvare le vite di cinque pazienti malati, questo è contrapposto e soppesato rispetto al dovere negativo di non interferire con la vita del paziente sano. Inoltre,Foot aggiunge una considerazione per lei cruciale: mentre negli scenari simili al primo caso l’agente si limita a reindirizzare una minaccia già esistente (un treno in corsa, che in ogni caso è già di per sé una minaccia), negli esempi come quelli del trapianto, l’agente inserisce, con il suo fare, una minaccia del tutto nuova.

Come appare evidente, trovare una risposta a questo genere di interrogativi non è semplice; o meglio, di risposte se ne trovano molte, ma mai nessuna è in grado di essere definitiva. In uno studio condotto ad Harvard nel 2001 dal neuroscienziato e filosofo Joshua Greene teso esattamente a verificare quale fosse l’attività celebrale legata a scelte morali di questo tipo, si afferma proprio questo:

there is no set of consistent, readily accessible moral principles that captures people’s intuitions concerning what behavior is or is not appropriate in these and similar cases. This leaves psychologists with a puzzle of their own: How is it that nearly everyone manages to conclude that it is acceptable to sacrifice one life for five in the trolley dilemma but not in the footbridge dilemma, in spite of the fact that a satisfying justification for distinguishing between these two cases is remarkably difficult to find?

Lo studio in questione propone una risposta diametrale rispetto alla prospettiva utilitarista da cui siamo partiti. Da un punto di vista psicologico, la differenza cruciale tra il dilemma del carrello e quello del ponte sta nel fatto che il secondo caso tende a coinvolgere le emozioni degli interrogati in un modo che il primo non riesce a fare. Il pensiero di spingere qualcuno giù da un ponte e causarne la morte è “emotivamente più saliente” rispetto al pensiero di colpire una leva che devierà un treno e produrrà conseguenze simili. Sarebbe proprio questo coinvolgimento emotivo a spiegare la tendenza delle persone a comportarsi diversamente in questi casi. L’idea, dunque, è che alcuni dilemmi morali (quelli simili alla versione dell’uomo grasso) coinvolgano in misura maggiore rispetto ad altri (quelli simili al dilemma della rotaia iniziale) i nostri processi emotivi e che proprio le differenze nel trasporto emotivo impattino sui giudizi delle persone.

Se l’utilitarismo dunque tenta di ridurre la morale ad un semplice far di conto, le moderne neuroscienze ci rivelano qualcosa di più intimo sul nostro agire: provare empatia verso gli altri non solo ci viene spesso naturale, ma ci condiziona nel nostro agire più di quanto siamo in grado di spiegare. Le nostre emozioni, quindi, forniscono un’ulteriore risposta all’esperimento su cui generazioni di filosofi si sono arrovellati e si arrovelleranno negli anni a venire.

L’autrice di questo articolo, indecisa cronica nella vita reale, apprezza gli esperimenti mentali per la lucidità e l’immediatezza con cui talvolta compaiono le risposte. Sempre la suddetta autrice, tirerebbe la prima leva, non spingerebbe l’uomo grasso giù dal ponte e accelererebbe il passo di fronte alle porte del Pronto Soccorso. E voi, cosa fareste?


Bibliografia


  1. Specifica dell’autrice: tra le sei persone legate, non ne conoscete nessuna. Non c’è né la vostra migliore amica, né il vostro ragazzo, vostra madre o il prof che odiavate alle medie. Non fatevi influenzare da simpatie personali. ↩︎

  2. Lo scenario proposto da Edmond è a sua volta una riformulazione di un esempio di Philippa Foot, contenuto in Virtues and Vices. ↩︎