Sottoforma di vaneggiamento esistenziale qualcosa invita a prendere coscienza di sé e ad assecondarne il Richiamo. L'insistenza di una costante domanda esprime l'urgenza di una risposta sincera.
“Lo senti anche tu?”, chiedo. “No, cosa dovrei sentire?”, risponde senza prestare troppa attenzione. Non è un suono, una voce o un brusio. Non è un sentimento, un’angoscia o un’emozione. Nulla di tutto ciò. È qualcosa che mi sta cercando; poco alla volta, giorno dopo giorno. È qualcosa che si fa sentire all’improvviso, che mi chiede partecipazione e che finisce per farmi compagnia. Ormai è parte di me, mi sento ancora più viva se c’è. Allo stesso tempo percepisco la pericolosità che sottende il nostro rapporto, eppure non voglio prescinderne. So che potrei vivere meglio se non ci fosse: senza infatti respirerei serenamente, ma ciò a lungo termine mi annoierebbe. Soffro questa noia esistenziale e soffro la monotona attesa dell’evento capace di interrompere questo mio aspettare.
“Lo senti anche tu?”, chiedo. Nessuno sente. E così rimaniamo ancora noi due nel nostro rapporto privilegiato. Noi due, eppure sono io, sola con questo qualcosa. Allora sono uno o siamo due? Sono io o siamo noi? Domandarlo mi è utile a delineare i margini di questo qualcosa. Non indago per il gusto di svelare il mistero di cui si alimenta, bensì per scontornare il disegno che il mio involontario sta tratteggiando. Nella mia ricerca vi è certamente traccia di un godimento intellettuale, ma ciò che più nutre questa indagine è l’autoanalisi. In mezzo a così tanta fermezza il mio io si agita, e agitandosi incontra qualcosa. È la carica dell’esistenza non esperita a far vagabondare ansiosamente il mio inconscio. Il qualcosa vuole emergere prepotentemente.
“Lo senti anche tu?”, chiedo. Non c’è risposta, stavolta nemmeno da parte mia. Per un mese ho vissuto di altro, di altri. Ora è tornato e l’ho riconosciuto. Ha sempre più appiglio in me perché non lo percepisco più come un estraneo, ormai è mio compagno. Accettare la sua presenza, seppur ancora adombrata, mi permette di oltrepassare l’incertezza e il disagio dell’incomprensione. Se prima domandavo ad altri una verifica di quanto sentissi, adesso convivo pacificamente con questo qualcosa senza l’esigenza di dare un nome. È qualcosa e basta.
“Lo senti anche tu?”, chiedo. Lo chiedo a me stessa. Sì, anche oggi è qui. È cambiato qualcosa: ora sento in modo più accentuato quel che mi sussurra. Mi invita a raggiungerlo, se desidero. C’è un modo per incontrarci, ed è pure semplice da realizzare. L’unico vincolo riguarda la posteriorità del nostro incontro: una volta uniti, non potrò più tornare al mio io precedente. Può risultare banale tale conseguenza, poiché ogniqualvolta si muova un passo si abbandona la sicurezza in cui si stanziava. Invece questo caso è maggiormente rischioso: dopo non ci sarò più io, non ci sarà più qualcosa, ma solo il grande e irrisolvibile Enigma.
“Lo senti anche tu?”, chiedo. È tornato a trovarmi perché il mio rifiuto non è stato sufficientemente incisivo. Sì, ho declinato il suo invito. La mia decisione è stata dettata dall’interiorizzato moto all’agire saggiamente? Probabilmente sì, anche se odio seguire norme morali assiomatizzate. Eppure ho fatto appello a queste per concedermi l’occasione di prolungare quella monotona attesa del rivoluzionario evento, un evento che forse sembrerà alimentare quest’esistenza. Seppur risulti estremamente facile accettare la proposta di avvicinamento all’insistente qualcosa, rinunciare invece all’aspirazione della realizzazione dell’io è doloroso.
“Lo senti anche tu?”, chiedo. Anche altri lo sentono, o lo hanno sentito. Anche altri ci convivono, o ci hanno convissuto. Anche altri rifiutano, o hanno rifiutato; ma altri ancora acconsentono, o hanno acconsentito. E del grande e irrisolvibile Enigma quest’ultimi hanno conosciuto l’ingresso.
“Lo senti anche tu?”, chiedo. Quel qualcosa finalmente ha un nome e dei contorni: è il potente richiamo dell’Enigma. Ed io l’ho conosciuto e rinviato al mittente.
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