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Il ricordo di una colpa

Il racconto di un giorno di febbre da bambina porta ad una violenta riflessione introspettiva con l'intenzione di accogliere chi sente verso se stesso lo stesso senso di colpa.

Ricordo da bambina un giorno di influenza, avevo all'incirca 8 anni e volevo a tutti i costi un gioco per la PlayStation. Esisteva ancora Blockbuster: noleggiare un gioco o un film era una salvezza nei giorni di noia poiché avevi l’impressione di dover portare a termine un compito. 

Era lontano da casa mia e stava nevicando tanto, ma mia mamma pur di farmi contenta mi vestì con strati di lana e mi portò con sé per scegliere questo maledetto gioco che avrebbe distolto l’attenzione dalla febbre.

Contenta, scelsi quello che più mi sembrava divertente e adatto alle mie capacità. Tornata a casa ci iniziai subito a giocare, ma scoprii che era tutt’altro che divertente e adatto a me.

Mi pervase all'improvviso un senso intenso di frustrazione: percepivo il disgusto per quel gioco come un tradimento nei confronti di mia mamma, come se avessi in qualche modo sputato sulla sua buona azione e sul suo amore; mi sentivo un’ingrata. Non potevo provare quell'emozione, anzi, non dovevo. Quel gioco doveva per forza piacermi dopo quello che mia mamma aveva fatto per me e per accontentarmi. Scoppiai a piangere: lei corse da me, non capiva, ma io non avevo il coraggio di dirle che quel gioco non mi piaceva, avrebbe sicuramente fatto di tutto per andarlo a cambiare con un altro e mi sarei sentita peggio.

Mentii su un dolore fisico. È da sempre rimasto un segreto tra me e me. 

Oggi scrivo questo ricordo con la stessa sensazione in corpo e mi accorgo che effettivamente non mi ha mai realmente abbandonata.

Non ho molto da spiegare su cosa sia il senso di colpa e non ho oggi la volontà di declinarlo nella sua accezione sociale o culturale. Oggi metto la “filosofia” da parte e rifletto su di me semplicemente raccontando, perché ho imparato che è con i racconti che le persone si identificano, trovano soluzioni, sono ispirati da idee o si sentono semplicemente confortate. È ciò che voglio fare, raccontare per raccogliere in un abbraccio virtuale chi queste sensazioni è abituato a reprimerle. E poi, egoisticamente, quando mi racconto, quantomeno il mio demone tace. 

Oggi come allora forse mi sento ancora in colpa con mia mamma, ma molto di più con me. Inconsapevolmente, quell'evento d'infanzia ha segnato l'inizio di una collezione di differenti forme di sensi di colpa: è stato l’origine del timore di non valere abbastanza.

È il 20 di gennaio, sono le 10 del mattino. Sto mandando l’ennesimo curriculum per l’ennesimo stage. Prendo il caffè e mi fermo a fissare il soffitto chiedendomi: su cosa posso puntare tra ciò che so fare? Se solo avessi creduto più in me, chissà oggi cosa farei. All'improvviso mi sento in colpa nei confronti di un gigante invisibile che mi chiede tutti i giorni di definire la mia persona: alla sua porta, quando busso per superare questo tratto di vita, mi apre chiedendomi chi sia. E "Giovanna" non gli basta.

In un contesto continuamente performante, fatto da persone che vendono ambizioni, progetti e sogni, c’è chi li guarda silenziosi sentendosi estraneo, perché non ha alcun sogno o progetto. Ed eccomi presente tra loro. Provo la colpa di non essermi interrogata abbastanza, di non aver capito nulla di me tanto da non essere capace di definirmi in ciò che potrebbe caratterizzare la mia vita.

Il senso di colpa si declina in una paura tipica di chi dubita di se stesso, indipendentemente dalle reali capacità o dagli obiettivi effettivamente raggiunti. È invece direttamente alimentata da una sorta di giudice interno sempre pronto a criticare quanto facciamo: il senso di colpa è pronto a farci sentire sempre inadeguati.

Io sento che il gigante si aspetta qualcosa in più da me, il riscatto di quello che fin ora mi ha dato, magari. Mi sento in colpa per non riuscire a dargli di più.  

Ma poi ci penso meglio e mi rimprovero di lamentarmi di una condizione esistenziale mentre mi trovo sotto un tetto al caldo, sfamata e con le spalle coperte da chi è disposto ad aiutarmi economicamente.

Improvvisamente mi sento anche in colpa per il fatto di lamentarmi nei confronti di chi non vive nelle mie stesse condizioni e non ha neanche il tempo per masturbarsi mentalmente con tutte queste angosce. 

Mi chiedo dunque cosa sia giusto provare o pensare in questi casi. E soprattutto perché devo provare continuamente tutto questo senso di colpa per qualsiasi cosa.

La continua riprovazione di sé stessi: mi rendo conto che è una caratteristica di molti, indipendentemente dalle proprie regole morali. Il senso di colpa, in questi casi, impatta negativamente sull'immagine di sé e sulla percezione del proprio valore personale. 

Ci sentiamo in colpa se ci fermiamo, se un giorno siamo completamente spenti, perché non progettiamo, non progrediamo, ma allo stesso tempo proviamo frustrazione per questa esigenza di correre e se stiamo correndo da troppo tempo e troppo velocemente ci sentiamo in colpa perché non siamo più capaci di fermarci.

Il senso di colpa è quell’emozione che ci fa provare dolore quando causiamo sofferenza all’altro: tendenzialmente è così, se non ne analizziamo le sfaccettature psicologiche più profonde. È opprimente quando l’altro che percepisci sei tu stesso a cui stai infliggendo dolore. Te ne rammarichi, ma sei senza controllo.