arrow_upward

Implicito e minimalista: una recensione de La Zona d'Interesse

la Zona d'interesse è un film di Jonathan Glazer, che si concentra sugli orrori dell'Olocausto attraverso molteplici allusioni. Il suo è, di fatto, il film sul genocidio degli ebrei meno traumatico che sia mai stato realizzato perché il suo obiettivo è averlo reso devastante, ma in silenzio.

È una Licenza di uccidere quella che i Nazisti sembrano aver usato per legittimare l'annientamento della comunità ebrea: di fatto, la Zona d'Interesse ha dichiaratamente l'intenzione di concentrarsi su questo aspetto per esporre, attraverso allusioni, gli orrori dell'Olocausto, le costanti grida in sottofondo delle vittime dello sterminio bruciate nei crematori, e il contrasto fra la vita idilliaca della famiglia Hoss e quella condotta dall'altra parte del muro del campo di concentramento di Auschwitz. In ogni caso, non bisogna dimenticare che Jonathan Glazer utilizza la vera storia di Rudolf Hoss, capo del campo di concentramento di Auschwitz, e della sua famiglia, per mascherare lievemente le atrocità perpetrate dai Nazisti. Questi vivono una vita ordinaria, fatta di picnic sulla riva del fiume e riunioni di ogni genere, come se non stesse accadendo nulla aldilà del muro che li separa dal campo. Ciò che fa Glazer è mettere in luce questi orrori facendo immergere completamente gli spettatori nella dimensione del film. Questo inizia con uno schermo nero, che sottintende una certa serietà, e con un sottofondo di rumori atroci, urla e pianti, sfumati dal cinguettio degli uccellini. Tutto ciò avvisa lo spettatore che sta entrando in una sorta di dimensione proibita, quasi distaccata dalla realtà, dove nulla è esplicito, ma tutto è sottinteso e risaputo. Torniamo, così, indietro nel tempo, mentre i nostri sensi sono intorpiditi, tutti tranne uno: l'udito. Possiamo sentire l'acqua che scorre, gli uccelli cinguettare, le grida delle vittime del genocidio. A mano a mano che procede il film, iniziamo a prestare sempre meno attenzione a ciò che avviene nel campo di concentramento perché ci abituiamo ai rumori e alle urla: in questo modo, Jonathan Glazer costruisce un film che parla dell'Olocausto inserendo completamente il pubblico in quel momento storico. Siamo anche noi parte della famiglia Hoss. Siamo i figli di Rudolf, ancora puri ed innocenti, inconsapevoli della violenza e dello sterminio di massa che sta avvenendo a pochi passi da noi, ed è meglio che rimanga così. Questo spiega anche il frame finale del film, ovvero lo stesso schermo nero, che ci libera dalla dimensione in cui siamo stati inseriti all'inizio. In ogni caso, le atrocità perpetrate da chi ha preso parte a questo genocidio non sono mai esplicite: tutto viene solo accennato, nulla è chiaro. Ancora una volta, è meglio se non vediamo cosa sta realmente accadendo.

La narrativa dell'Olocausto procede ormai da più di cinquant'anni, ed è importante che la sua eredità rimanga per le generazioni a venire: non può venire dimenticato. Non è stato, tuttavia, mai raccontato come ha fatto Jonathan Glazer: il suo è, di fatto, il film sul genocidio degli ebrei meno traumatico che sia mai stato realizzato, questo perché il suo obiettivo è stato quello di renderlo devastante, ma in silenzio.

Comprendere le intenzioni del regista, però, non è stato per nulla semplice: le scene del film sono spesso sconnesse, non sembra seguire un filo logico, e questo aspetto lo rende difficile da seguire. Per esempio, la favola di Hansel e Gretel, inserita in alcuni momenti del film come storia della buonanotte che Rudolf legge alla figlia, potrebbe essere stata inclusa come modo per dimostrare quanto i Nazisti facessero il lavaggio del cervello persino ai propri figli, convincendoli che fosse giusto bruciare qualcuno per giuste ragioni ("chi si è comportato male", suggerisce Rudolf alla figlia). Per quanto immediato da capire sembri questo particolare, non avviene lo stesso per il resto del film: per esempio, come si inserisce nella trama l'ultima scena nella quale Rudolf sembra sul punto di vomitare, poco prima di intravedere il futuro del campo di concentramento attraverso lo spioncino di una porta? Come si connette con la scena precedente? Ci sono alcune interpretazioni che varebbe la pena prendere in esame; tuttavia, personalmente, se non avessi ascoltato alcune interviste al regista e letto alcune recensioni, non sarei stata facilmente in grado di pensare ad interpretazioni così elaborate.

In ogni caso, un aspetto interessante del film è come la sua struttura circolare venga utilizzata per creare una dimensione travolgente: siamo completamente avvolti dal film fino all'ultima scena, dove il cerchio si chiude. Nonostante sia un intrigante lavoro di prospettiva, è alquanto scoraggiante assistere a così tanti passaggi da una scena all'altra senza un'apparente linea di pensiero. Il film inizia con uccellini che cantano e l'acqua del fiume che scorre, e si conclude con suoni tanto drammatici che sembrano provenire direttamente dall'Inferno che le vittime di questo genocidio hanno vissuto: due cornici in conflitto. Implicito e minimalista, non ha in realtà bisogno di un filo rosso a condurlo, poiché l'intenzione di Jonathan Glazer è ampiamente soddisfatta: ricordarci che ciò che è accaduto non deve assolutamente essere dimenticato.