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Intervista ad Alessandro Giammei: tra avi e avatar

Il modo in cui insegniamo e promuoviamo la cultura italiana è necrofilo. Invece di portare i viventi in un altrettanto vivente passato, ci sforziamo di portare i morti nel presente, mortificandolo. Gaia Bertotti intervista Alessandro Giammei, scrittore e professore alla Yale University.

In occasione della presentazione del suo ultimo libro, Gioventù degli antenati. Il Rinascimento è uno zombie (Einaudi, 2024), Gaia Bertotti incontra a Torino Alessandro Giammei, studioso e docente di letteratura italiana alla Yale University.
Con uno sguardo originale e irriverente, Giammei rilegge il Rinascimento non come un’epoca passata e conclusa, ma come un “non morto” che continua a infestare il nostro immaginario culturale. Tra letteratura, arti visive e cultura pop, il suo saggio sfida il mito della classicità intoccabile e ci invita a riscoprire il passato in chiave nuova e sorprendente. Ne parliamo con lui in questa intervista.


GB: Nel suo libro “Gioventù degli antenati. Il Rinascimento è uno zombie” parla di necrofilia, in particolare della sua trasformazione in necromanzia. Da dove nasce la scelta di questo argomento?

AG: Ho paura della deriva necrofila che da sempre siamo tentati di prendere quando parliamo del passato. Si tratta il passato come un cadavere desiderabile, meraviglioso, da conservare, da feticizzare e soprattutto da guardare con cupidigia. Nel frattempo, chi gestisce il traffico delle morti fa quello che vuole giustificandosi con discorsi come: “È Dante che ci ha detto che dobbiamo essere i figli di questo italiano, non possiamo cambiare niente della nostra lingua, perché è la lingua di nostro padre. È Petrarca che ci ha detto che l’unico modo di amare è quello tra un uomo e una donna, non possiamo cambiare queste cose”. Ma se si va ad interrogare per davvero – cioè se si sfruttano gli strumenti straordinari che sono la filologia, lo studio archeologico del passato, la traduzione –, quei morti dicono altre cose. Bisogna quindi adottare un approccio necromante, un approccio attivo, interlocutivo che permetta a quei morti – con la nostra fatica, non con la loro – di dire quello che veramente hanno da dire. Molto spesso hanno da trasmettere argomenti sovversivi, non conservativi.

In che modo la necrofilia è una forma di amore?

Io non credo che chi, per esempio, si professa conservatore, o custode del passato, sia necessariamente in malafede. Persino i fascisti: se uno studia gli intellettuali, le proposte culturali del fascismo, trova che c’è un vero amore, un vero tentativo di essere eredi di questa civiltà italica – qualunque cosa essa sia. Il problema è che è sbagliato scientificamente, accademicamente; cade in errori gravissimi, che tra l’altro sono errori che gli stessi testi, gli stessi personaggi, le stesse opere d’arte denunciano al loro interno.
Io, come studioso del Novecento, mi sono a lungo illuso di dover essere un difensore del passato contro i fascisti che lo hanno manipolato. Poi mi sono reso conto che se uno studia, si rende conto che è il passato stesso che si difende benissimo dal fascismo. Però ecco, è un amore che esiste: come sappiamo dall’inferno di Dante, non tutte le forme d’amore sono proficue, sono buone, sono felici. Ci sono degli amori inquietanti. Ecco la necrofilia… Questo discorso serve a dire che deve cambiare il tipo di amore. Filologia è anche una forma di amore.

A tal proposito, perché ritiene che il contrario del fascismo sia la filologia?

Dovrei scrivere altri dieci libri per dimostrarlo, però lo credo! Mi viene in mente questo: le leggi razziali hanno allontanato dalle cattedre di filologia una serie di brillanti filologi ebrei che sono andati nel mondo e hanno cambiato gli studi di noi occidentali, quando non sono stati uccisi dalle persecuzioni. Portando con sé il trauma delle leggi razziali e del colloquio col monolite fascista-necrofilo. Credo che la filologia – in quanto disciplina della critica, disciplina della scelta, e soprattutto della composizione delle cose che non stanno insieme – nasca come tentativo di arrivare alle fonti non scegliendone una e andando monoliticamente su questa, ma prendendole tutte e avendo la responsabilità di metterle l’una in contatto con l’altra, perché ci sia un risultato che è un compromesso. Già questo atteggiamento nei confronti del passato, dei testi e delle persone è già un antidoto al fascismo. Perché il fascismo è anche una raccolta di diversità, ma che va verso l’univoco, l’unico momento, l’unica parola, l’unica verità, la propaganda. Invece, la filologia ti impedisce di immaginarti identico, l’identità.

In questo momento di transizione digitale, come stiamo affrontando il passaggio da consapevolezza di un passato che è storia verso un futuro che invece è incognita? Quindi il passaggio da avi ad avatar?

Io sono molto felice di passare dagli avi agli avatar; di superare l’illusione di una genealogia e così di abbracciare l’attività della scelta di un avatar. Quando uno gioca a Tekken, se lo sceglie. Allora, prendersi anche la responsabilità di dire ‘non è che io sono nato figlio di Dante’, ma dire ‘io scelgo Caterina da Siena come mio avatar medievale; io scelgo Meo Abbracciavacca; chi mi pare ’. E se scelgo Dante è perché c’è un motivo, non perché mi hanno detto che è mio padre.
Non credo invece che siamo in un momento di transizione, se non come lo siamo stati mille volte. Quando c’è stata l’invenzione della stampa nel Quattrocento in Europa (altrove già c’erano analoghe tecnologie), gli europei di allora hanno creduto di essere al cospetto di un bivio da cui non si tornasse più indietro. Soprattutto temevano di subire ciò: prima avevamo i manoscritti, per cui un rapporto diretto, la mano, la pergamena che non muore mai. Sapevamo dove andare a cercare Aristotele, perché il suo libro è in quella abbazia, perché l’hanno copiato lì. Adesso con la stampa, chissà, magari diffondono mille copie false; sono stampate, quindi non c’è più la mano, non c’è più responsabilità. Questi sono gli stessi dibattiti che abbiamo a proposito dell'intelligenza artificiale. Io credo che ci troviamo continuamente di fronte allo stesso bivio. Purtroppo, quello che abbiamo dimenticato è che abbiamo gli strumenti per affrontarlo. Se leggiamo il passato per quello che è, cioè una cosa irraggiungibile, ma non una cosa obsoleta. Una cosa che invece se interpretata, ci risponde, come dice Machiavelli. Non ci dà degli ordini, ma ci dà dei consigli.

Grande questione attuale è quella della Cancel Culture. Qual è la sua opinione?

Che non esiste. È una menzogna, un’invenzione delle destre essenzialmente; di gruppi identitari che sono terrorizzati semplicemente dal passare del tempo, come tutti i conservatori, e dal progresso. Quando ci sono questi episodi che emergono sui social-network e che vengono ripresi dai giornali: “Non si studia più Jane Austen a Cambridge!”, Viva Dio! Non si può ogni anno fare tutto il canone. Ecco, la cosa che mi inquieta è quando poi dicono: “Gli studenti musulmani della scuola media di Vercelli non hanno fatto Dante perché dice cose brutte sui musulmani” e ‘sti ca… voglio dire, il Medioevo è pieno di argomenti interessanti! Dante non è necessario. E soprattutto sta benissimo, non è cancellato nel momento in cui non lo studiano in una classe. Dante non ha bisogno di noi. Prima che dimentichiamo Dante, crollerà l’intero universo. Dante è già ovunque. Preoccupiamoci invece di avere cautela per autrici e autori che non sono altrettanto fortunati. Credo che la cancel-culture sia, come il politically-correct, un mito proiettivo di chi in realtà cancella. E cancella le voci dissidenti, le voci degli oppressi, cancella la guerra in questo momento, cancella il genocidio. Cancella delle parole: non ci permette di dire genocidio; però dice a chi si dichiara queer o usa la schwa che sta cancellando le altre cose. Chi non vuole più usare le parolacce contro certe identità dice che sta cancellando delle parole dalla lingua italiana. Sono cose proiettive di cui dobbiamo diffidare profondamente. Vai a cancellare Shakespeare, Cervantes: fa ridere, rientrano sempre dalla finestra. Stanno benissimo, non hanno bisogno del nostro aiuto. Altre cose, altre persone ne hanno.

Ultima domanda, magari vado a toccare corde un po’ più sensibili: del concetto di sangue ha a lungo parlato Michela Murgia, in particolare portando alla luce – anche se ovviamente esisteva già come concetto – la famiglia queer, cioè un insieme di soggetti legati tra loro da affetto e responsabilità e non da geni e doveri legali.

C’è un grande fraintendimento su questa questione, cioè che la famiglia queer sia un’alternativa alla famiglia che chiamiamo tradizionale (che tradizionale non è, è un’invenzione essenzialmente borghese ottocentesca, ma anche novecentesca – la famiglia nucleare è un’invenzione americana che ha colonizzato l’immaginario europeo). È un inganno che sia un’alternativa: la famiglia queer è una lettura più lucida di qualunque famiglia, è una verità sulla famiglia. Kamala Harris nella sua campagna elettorale cita Michela Murgia: “Io vengo da un luogo in cui c’era chi era parente mio per sangue, chi era parente mio per amore”. Gerarchizzare questi sentimenti è ridicolo, e lo sa chiunque; chiunque ha esperito questa cosa. Michela Murgia lo faceva – e lo fa oggi – per liberare la gente dall’idea che la propria esperienza familiare sia anomala, sia strana, sia anormale. Nessuno ha una famiglia normale, come sappiamo da tutta la letteratura di tutti i tempi, e semplicemente prenderne coscienza è la prospettiva queer sulla realtà. Il queer come teoria del mondo, come teoria della coscienza (che si radica tra l’altro in un passato remotissimo – se leggiamo Saffo o Catullo seriamente) non è un’alternativa allo status quo: è la rivelazione che lo status quo già è anormale, strano, che ne dicano i preti e tutte le religioni, inclusa quella socialista, come diceva Giorgio Bassani.