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La bellezza dello sbocciare

La luce incontra il mio sguardo, vedo il mondo. Il pensiero nel mondo cammina e io con esso; viaggia nel passato e percepisce gli echi di eventi che tentano ancora di parlarci, di guarirci.

Sono in viaggio, e guardando fuori dal finestrino vedo le cose. Vedo il mondo davanti a me che si staglia sconfinato: la strada, le macchine, le piante verdi, le colline ondulate, gli uccelli che volano roteando nel fresco cielo di una giornata d’estate. Vedo l’orizzonte oltre il quale i miei occhi non hanno accesso. Il mondo sorge e io lo vedo tutto intero nella sua immensità. Respiro un poco e chiudo gli occhi, quando li riapro le cose sono ancora lì, tutte quante come le avevo lasciate. Un altro respiro, e poi, un pensiero essenziale. Ma il rumore della macchina mi restituisce al mondo tortuoso e intricato del quotidiano e perdo per un attimo quel pensiero. Nella medietà del mio vivere, il pensiero si contorce su se stesso fino a tessere tele inestricabili. Passa da cosa a cosa senza pace con tensione sempre crescente.

«L’ente ci incontra da ogni parte, ci avvolge, ci sostiene e a lui ci sottomette, ci affascina e ci appaga, ci esalta e ci delude». In questo eterno dominio del molteplice perdiamo noi stessi, ci dimentichiamo nelle cose del mondo. Questo pensiero cogitante ci stringe e ci soffoca da fin troppo tempo ormai. Rifletto un poco, su quello che abbiamo dimenticato. E penso che qualcosa abbiamo effettivamente dimenticato, ma quel pensiero essenziale l’ho perso, e non ricordo più cosa mi comunicasse. Per aiutarmi cerco di sforzare la mente e nel pensiero mi perdo nelle tante informazioni che incontro al suo interno. Il mio sguardo incontra un albero in lontananza, il mio pensiero incontra una foresta, penso ancora.

Intorno agli anni '40 del Novecento un giovane giornalista francese, Frédéric De Towarnicki, cercava con tutto se stesso il filosofo tedesco ormai scomparso da anni dalla scena pubblica: Martin Heidegger. Quest'ultimo si era ritirato a vita privata dopo la rinuncia alla carica di Rettore nel ’34 per vivere con sé stesso e con sua moglie tra gli alberi e la pace della Foresta Nera. Il primo a rompere questo ritiro fu proprio De Towarnicki. Questo giovane ragazzo voleva delle risposte e cercava il filosofo fin dai tempi del fronte. Voleva delle risposte. Aveva letto, come molti, Essere e Tempo, l'opera pubblicata nel 1927 che aveva fatto raggiungere a Heidegger notorietà e che aveva avuto molto successo proprio in Francia. Dopo tanti sforzi i due riuscirono a incontrarsi, inaugurando così un periodo di incontri che non sarebbe mai finito. De Towarnicki si recava spesso, soprattutto nei primi tempi, nella casa di Heidegger per passare del tempo con lui e per scambiare delle lunghe chiacchierate sulla sua filosofia e sul pensiero in generale.

Un giorno, in uno dei loro incontri, si ritrovarono a passeggiare e le loro bocche disquisivano maggiormente sui dubbi che attanagliavano il giovane giornalista. Dopo un momento di assortimento, De Towarnicki bruscamente si chinò per disegnare qualcosa sulla ghiaia: tracciò le linee di come immaginava l’essere umano nel suo rapporto con il mondo. Disegnò un piccolo cerchio aperto (l’uomo), dal quale partiva una serie di raggi che attraversavano da ogni parte un grande cerchio chiuso (il mondo). Un passante si fermò incuriosito a osservare il disegno, terminato il quale il giovane alzò la testa, in attesa di un commento del filosofo. Dopo un istante di silenzio Heidegger sorrise perplesso, il momento successivo scoppiò in una risata e disse: "Ma no, il Dasein non è il Cogito, il mondo non è nella coscienza. Dasein non dice «sono qui»; piuttosto 'laggiù'". Indicò, all’estremità del parco, i boschetti delle magnolie. Per Heidegger l’uomo non è un soggetto cartesiano che si rappresenta esternamente il mondo e che lo studia con occhio critico. L’uomo è qualcosa di più semplice di così: esso “splende, per così dire, lì dove le cose in un sol colpo sono”, si apre alla presenza stessa delle cose. Le cose sono qualcosa di più di meri oggetti posti al servizio dell’uomo. L’uomo per questo perde se stesso, e si perde proprio in quegli oggetti che crede di dominare. La molteplicità delle cose, degli enti, tiene l’uomo distante da se stesso. L’uomo, in questo stato, è distante da se stesso, avvinghiato alla complessità delle cose del mondo, dimentico di accorgersi della luminosità che si irradia nella radura circondata da fitti alberi.

...Smetto di riflettere, torno a parlare con gli altri passeggeri.

Adesso sono sulla spiaggia, davanti a me l’orizzonte, la dolce brezza mi sfiora dolcemente la pelle e il blu del mare unito a quello del cielo invade piacevolmente il mio sguardo. Nella mia mente assorta passa una riflessione: c’è forse differenza tra l’uomo che ha la certezza di vedere il mare poiché lo percepisce con i sensi e lo rappresenta con la mente, e l'uomo “al quale la scoperta davanti a sé del mare strappa il grido che i soldati di Senofonte, giunti in cima a un’altura, emettono, sembra con voce unanime: 'Thalassa', il mare!”. Chi è maggiormente di fronte al mare? Colui che ne è certo? O colui al quale il mare si manifesta?

Ora è notte, sono nel balcone di casa mia, davanti a me risplendono le luci dei paesi vicini, il nero del cielo sopra di me. Luminosa, al centro, una stella. Poco dopo ne spuntano altre più fioche, i contorni delle montagne si perdono nell’oscurità della notte. Respiro ancora, poi, ancora quel pensiero essenziale. D’un tratto cerco di rifletterci sopra, cercando di ricordare, cercando di capire cosa mi stesse comunicando. Poi, smetto di sforzarmi, lascio fluire le cose, non mi sforzo più. Distendo i nervi e rilasso il corpo, guardo le cose davanti a me senza sforzi. Eccolo, quel pensiero essenziale è tornato a bussare alla mia mente, è lui che adesso mi spinge a pensarlo, io lo accolgo. Esso chiede una sola cosa: il semplice. La stella sopra i miei occhi splende, e non ha molto altro da dire se non mostrarsi in tutto il suo splendore. Allora la guardo attentamente e respiro ancora.

I filosofi scolastici quando parlavano di veritas erano obbligati a definirla «veritas est» poiché la semplice parola verità di per sé non dice nulla, è vuota. Ed è in questo continuo collegarla ad altro che abbiamo perso la vera essenza delle cose, quella semplicità che sfugge al pensiero del calcolo della veritas est. La parola greca tradotta con veritas è aletheia. Ma questa parola non è affatto vuota, essa, senza essere accorpata ad altro, esprime già tutto: presenza manifesta di qualcosa. E questo è forse ciò che c'è di più semplice e per questo più ineffabile. Nel mio continuo affaccendarmi nella medietà delle cose del mondo perdo me stesso. Questa semplicità è l’insolito nel solito del mondo. Nel mio quotidiano mi trovo a occuparmi delle cose, esse sono per me dei mezzi, e sono tantissime. Questa è la solita dimensione della vita. Quella abituale routine che ha dimenticato proprio quel pensiero essenziale: il semplice.

Respiro ancora, ripenso alla giornata, ricordo gli uccelli, il mare e poi guardo la stella luminosa davanti a me. Le cose si manifestano nella loro semplicità e io le lascio essere, io sono già lì con loro. Questo pensiero insolito è anche il più difficile. Esso non si mostra irrompendo rumorosamente nel mondo: ha più il carattere dell’ineffabilità, sfiora lievemente il quotidiano come l’ombra di una nube. Il buio mi chiude delicatamente gli occhi, il vento fresco della sera mi fa rabbrividire la pelle, in lontananza qualche cicala ancora sveglia canta, ma il silenzio della notte è più forte e mi culla amabilmente. Respiro. Apro gli occhi. Sono nel mondo.