"Che lavoro vuoi fare da grande?", "E dopo l'università, allora?", "Ma quanto vorresti guadagnare col tuo lavoro?". Insomma, le classiche domande del pranzo di Natale con i parenti. E se non fossero quelle giuste? E se "non lo so", fosse la risposta corretta?
Quando sarò grande… Che poi, cosa significa essere grandi? Ci hanno sempre cresciuti con l’idea che “diventare grandi” voglia dire sistemarsi: trovare un lavoro, trovare una casa, pagare le bollette, pagare le tasse, costruirsi una famiglia... Ma quasi nessuno ti cresce preparandoti alla possibilità che non è proprio così semplice e lineare. Spesso ci si perde, si percorrono tante strade diverse e solo dopo tanti tentativi ed errori forse si trova la propria. Anzi, forse a volte non la si trova nemmeno. A volte la strada non esiste e dobbiamo costruircela da soli. Questa è una missione difficile, soprattutto nel mare di possibilità in cui (fortunatamente) ci troviamo e tra cui possiamo scegliere. È come se dovessimo fare un puzzle dalle infinite combinazioni, dove non esiste un solo pezzo che combaci con un solo altro. Allora come si fa a “diventare grandi”?
Sinceramente non ho una risposta a questa domanda. Anche io la sto cercando, perché ancora sono in quel limbo in cui i nonni ti chiedono “Allora, che lavoro vuoi fare da grande?” ma quotidianamente faccio la spesa, entro nei negozi di casalinghi (anche solo per guardare) e devo fare la dichiarazione dei redditi. Se mi chiedono cosa voglio fare dopo l’università rispondo con uno sguardo tra il divertito e il disperato e dico “Domanda di riserva?”. Probabilmente non sono la persona più indicata per completare la frase “quando sarò grande…”. O forse, semplicemente non posso completarla come ci si aspetterebbe.
Quando sarò grande vorrei essere felice. Vorrei rimanere umana, in una società in cui la realizzazione di sé stessi sembra essere l’obiettivo più importante e la performance vale molto di più dell’autenticità. Vorrei imparare ad accettarmi per come sono e non diventare quello che gli altri si aspettano da me. Vorrei diventare la migliore versione di me stessa, senza dimenticare chi sono stata. Vorrei che nessuno mi giudicasse (quando non ne ha il diritto) per le scelte che prendo e soprattutto quando queste scelte si riveleranno sbagliate.
“Sbagliando si impara” ci hanno sempre detto. Ma spesso gli sbagli ci sono stati fatti pesare e a lungo andare ci hanno abituati a pensare che dopotutto errare non è umano e che, di conseguenza bisogna sempre fare le scelte giuste, essere perfetti. O quantomeno cercare di esserlo.
Quando sarò grande, quindi, io non voglio essere perfetta. Almeno, non perfetta per gli altri. Forse per me stessa.
Quando sarò grande, non vorrei essere una persona stanca. Non parlo solo della stanchezza fisica, ma di quella mentale, esistenziale, che vedo in troppe persone intorno a me, adulti e non solo. Parlo di quella che nasce dal vivere in una società che ti misura in base a quanto produci, a quanti esami porti a casa, a quante ore resti sveglio a lavorare. È come se essere sempre occupati fosse una medaglia al valore. Come se il riposo, l’ascolto, la lentezza, fossero diventati lussi da giustificare. Oppure un qualcosa da meritarsi. “Prima il dovere e poi il piacere” è un’altra cosa che ci hanno sempre detto. Quando sarò grande, invece, vorrei diventare capace di fermarmi senza sentirmi in colpa, senza dover sempre dimostrare qualcosa.
“Puoi diventare tutto quello che vuoi”, eppure poi sembra che esistano solo alcune strade giuste, alcune scelte accettabili, alcune ambizioni “serie”. C’è una sottile ipocrisia nel modo in cui viene raccontata la libertà: teoricamente possiamo sognare, ma poi c’è sempre qualcuno pronto a misurare il valore dei nostri sogni in termini di utilità, o peggio, di reddito.
Una cosa che forse non ci viene mai chiesta credo sia “chi vuoi essere, davvero?” Non “che lavoro vuoi fare”, non “quanto vuoi guadagnare”, ma proprio chi. Che tipo di persona vuoi diventare? Che tipo di presenza vuoi essere nel mondo? E forse dovremmo cominciare a farci questa domanda più spesso, anche se fa paura.
A volte penso alla frase diventa chi sei [1]. Sembra semplice, ma è una delle cose più difficili da fare. Perché diventare chi si è davvero implica scavare, smontarsi e a volte, perchè no, anche disobbedire. Implica deludere aspettative, dire qualche (o tanti) no, accettare che la tua voce non assomigli a quella degli altri. E in una società che ci spinge a uniformarci, a piacere, a funzionare, diventare sé stessi è quasi un atto di resistenza. Non un punto d’arrivo, ma un processo continuo. Faticoso, forse, ma l’unico che valga davvero la pena, soprattutto per amore verso sé stessi e per il proprio benessere.
Allora quando sarò grande, più che “arrivare” da qualche parte, vorrei imparare a restare. Restare in ascolto. Restare in contatto con me stessa. Vorrei restare vulnerabile, anche se la vulnerabilità non va più di moda. Restare curiosa, anche se tutto spinge a correre, a sapere già tutto, a essere sempre “sul pezzo”. Vorrei restare capace di guardare negli occhi chi ho di fronte, di non dare le persone per scontate, di non dimenticare quanto può essere rivoluzionaria anche solo una presenza sincera, in un tempo di relazioni distratte.
Perché forse diventare grandi non è un traguardo da tagliare, ma una scelta quotidiana. Una promessa da rinnovare ogni giorno: quella di non perdere se stessi mentre si prova a trovare il proprio posto nel mondo. Restare autentici, anche solo un po’, anche solo a tratti, è già una forma di resistenza silenziosa. Una scelta forse invisibile, ma profondamente necessaria.
Frase spesso attribuita a Nietzsche o a Ralph Waldo Emerson, ma è stata citata da loro a partire dal poeta greco Pindaro. ↩︎
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