Verità smarrite, fanatismi spirituali, ricerche eroiche
Questo articolo non vuole risolvere, ma sollevare, per coloro che vorranno leggere, il problema dei problemi: che cos'è la verità?
In un mondo dove il telegiornale pretende di raccontare una guerra sotto un punto di vista mascherato come oggettivo, dove i politici osano dare giudizi spacciati per veri (ma che sembrano delle sentenze) su categorie umane e fenomeni molto lontani da loro, in un mondo dove non capiamo più nemmeno il nostro vicino di casa, che cosa è ormai la Verità?
Lungi da me il voler analizzare le infinite concezioni, filosofiche e non, della verità[1], in questo articolo vorrei sollevare un problema sul nostro uso comune del termine. Questa parola, infatti, è correntemente intesa in due modi, a seconda che diciamo che sia vera una persona o cosa, oppure un enunciato. Mi spiego meglio.
Quando diciamo che una persona o una cosa sono vere, intendiamo che sono autentiche, o in carne e ossa: il rolex vero è un esemplare non contraffatto (beati voi!). L'amico vero, invece, è un amico sincero, o che c'è per noi. Tuttavia, qui non ci interessa questo utilizzo morale o puramente denotativo del termine. Bensì, l'utilizzo logico. Il punto focale sono quindi gli enunciati, termine con cui possiamo indicare tutte le frasi dichiarative del tipo "A è B".
Una proposizione p, ad esempio "L'autore dell'articolo è alto 1,79 metri", è vera "se e solo se p", ovvero se, uscendo dalla frase e andando a guardare nel mondo, questo stato di cose è confermato (in questo caso avremmo una verità – vi confermo che l'autore dell'articolo è alto 1 metro e 79). Questa concezione della verità è antichissima e appare già nel Sofista, dialogo scritto da Platone nel IV secolo a.c.
A questo punto, però, eccoci già arrivati ad una rottura insanabile. Una volta indicato Giulio e adottato il chilogrammo, per una frase come "Giulio pesa 70 kg" è cosa da poco essere vera o falsa. Anzi, quasi immediata. Basta una bilancia. Cosa succede, invece, a una frase come "Giulio è felice"? E a una frase come "Giulio mente"? Ebbene, uno potrebbe pensare che basterebbe andare a vedere nel mondo come si comporta costui, ma ecco cosa ovviamente accadrebbe: alcuni confermerebbero, altri smentirebbero.
Il motivo di tutto questo è che mentre i dati concreti e misurabili come peso, altezza, PIL di un paese e palle sull'albero di natale sono verificabili, cioè disponibili ad essere veri, le qualità morali, le impressioni, le credenze e i sentimenti dipendono dal soggetto che le giudica. Per questi fattori soggettivi tuona l'imperativo di Protagora (V secolo a.c.): "l'uomo è misura di tutte le cose". Oggi diremmo: l'uomo è misura di come i dati vengono interpretati. Io non posso decidere se sono alto 1 metro e 70, ma sarò io, sulla base di fattori non proprio oggettivi, a sentirmi alto o basso.
In contesti più seri, se qualcuno dicesse qualcosa come “nessun aereo ha bombardato un edificio”, e ciò fosse invece successo, starebbe di certo dando una fake news. Ma se dicesse “è giusto e necessario che questo aereo abbia bombardato l’edificio”, starebbe dicendo qualcosa di totalmente estraneo al mondo dei dati, producendo una notizia ancor peggiore della precedente - una “unfakeable news”. In altre parole, starebbe dichiarando qualcosa che per sua stessa natura è infalsificabile, e cioè a rigore indichiarabile.
Giunti a questo punto, la verità è scomparsa dalla grande maggioranza dei nostri discorsi. Siamo finiti come, secondo Hegel, lo spirito del singolo uomo, che fattosi ragione attiva, cioè avendo cercato di creare un ponte fra sé e il mondo esterno, rimane irrimediabilmente ferito dall’immoralità di quest’ultimo, e trova come unica soluzione quella di imporre se stesso e le sue credenze sugli altri. Con esiti infelici. In altre parole, poiché troppe cose non sono verificabili né falsificabili, specie in ambito morale, gli individui finiscono per ritirarsi in sé stessi e per ascoltare soltanto la legge del loro cuore, rischiando così il delirio della presunzione.
Che via di uscita c’è da questa malinconia causata dalla verità perduta? Piuttosto che procedere attraverso il megalomanismo e l’imposizione del sé, Hegel vorrebbe che tendessimo verso uno spirito collettivo e poi assoluto, conquistabile con l’arte, la religione e la filosofia. Socrate, forse, constaterebbe questo terribile lutto con una risata, e direbbe, proprio come al termine di certi dialoghi platonici: “comunque, ci vediamo domani”.
In fondo, però, proprio questo è filosofia. A forza di cercare la Verità assoluta, ci si ritrova in un loop infinito, come Sisifo: costui era l'uomo condannato da Zeus a trascinare in cima a una montagna un masso gigante, che ogni volta rotolava giù costringendolo a ricominciare. La sapienza che cerchiamo, allora, deve essere diversa da ciò che credevamo all'inizio: non si può più inseguire una verità metafisica e perfetta. Il punto sarà invece parlare con il mondo, mettendoci alla pari con esso. Il dialogo con gli altri, infatti, è l'unica chiave per conoscere le loro vite, e quindi, poco a poco, i significati che essi danno ai fatti - anche se non sono oggettivi. In altri termini, solo tramite una costante indagine delle credenze altrui un filosofo può fare il suo massimo: rimanere in una vitale tensione tra la Verità assoluta e l'abisso del non-senso. È una ricerca eroica, dove eroismo non indica né fanatismo, né solitudine, ma la capacità di indagare costantemente quella parte del mondo che sfugge alle griglie della logica. Allontanatici dunque dai dogmatici, amanti della Verità, e anche dagli scettici, che la Verità la odiano, ci siamo sì ritrovati come Sisifo - ma ci siamo affezionati alla pietra, abbiamo iniziato a chiamarla compagna.
Si consiglia, per un degno approfondimento della questione, un libro come W. Künne, Conceptions of Truth, Oxford 2003. ↩︎
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