Vivere e studiare in una città nuova e diversa è sicuramente un’esperienza indimenticabile, piena di emozioni e soprattutto di alti e bassi. In questo articolo/riflessione cercherò di raccontare, attraverso la mia esperienza e non solo, tutte le sfaccettature della vita da fuorisede.
Quando in quinta superiore ho deciso di frequentare l’università a Bologna, non sapevo a cosa sarei andata incontro. Ho semplicemente scelto la migliore nella classifica Censis e mi sono detta: “Ma sì, che sarà mai trasferirmi a 400 chilometri da casa? Comunque posso tornare ogni tanto e ho decisamente voglia di andarmene da qui.” Abitando in un piccolo paese in Valle d’Aosta la “voglia di andarmene” era più simile ad un bisogno. Bisogno di scoprire realtà nuove, una città grande e di conoscere altre persone, cambiare un po’ aria. Credo che questo sia un sentimento familiare e comune a chi decide di cambiare città per studiare e credo che in una certa misura sia anche difficile accettarlo. Un po’ ti senti in colpa verso la tua famiglia, ti sembra di tradire gli amici di sempre, pensi di star abbandonando tutti e tutto. Qui proprio gli affetti giocano un ruolo importantissimo. Il loro supporto è fondamentale per superare le preoccupazioni e le ansie legate a un cambio così drastico. A 19 anni ti ritrovi in mano la tua vita come una palla di creta a cui non sai che forma dare, ti chiedi come gestire le responsabilità o come fare la lavatrice senza rovinare quel maglione. E tutto questo a 400 chilometri da casa, dalle figure di riferimento. Non è per niente facile.
Così nel frattempo ho cercato e trovato casa (per la maggior parte degli studenti a Bologna si tratta di un’impresa eroica) e mi sono trasferita in una doppia in Via del Borgo. Avevo molta ansia la notte prima del primo giorno di lezioni, anche perché, come se non bastasse, ero sola in casa, tutte le mie coinquiline non c’erano. “Riuscirò ad arrivare in università senza perdermi? E se non trovo l’aula? E se poi non faccio amicizia con nessuno? Come farò?” domande del genere mi hanno attanagliata fino all’ultimo secondo prima di entrare nell’atrio, e in certi momenti ancora tornano a farsi sentire.
Col passare dei mesi ho avuto modo di conoscere le mie coinquiline, e mi sono resa conto di essere stata molto fortunata ad aver trovato proprio loro. Forse l’aspetto convivenza è sottovalutato e ammetto che io per prima non l’avevo considerato a dovere. Trovarsi a vivere con tre sconosciute (nel mio caso, ma alcuni vivono anche con sei persone), a condividere la quotidianità, a mettersi d’accordo per lavare i piatti o fare le pulizie non è semplice. Accettare ognuna le abitudini e le diversità delle altre lo è ancora meno. Dopo due anni e mezzo di convivenza a volte faccio ancora fatica, ma ho imparato che bisogna farsi andare bene anche quello che può dare un po’ fastidio, per mantenere un equilibrio e una certa serenità.
Quando poi sono tornata a casa per la prima volta è stata una sensazione strana. In realtà all’inizio non ci volevo tornare, l’entusiasmo della nuova vita indipendente era così travolgente… non mi piaceva più stare a casa con i miei genitori, il dover rendere conto a qualcuno non faceva più parte della mia routine. Una volta tornata non ero felice perché non mi sentivo più libera. Trasferirmi mi aveva cambiata e mi aveva dato la possibilità di costruire una nuova identità, che non era compatibile con quella che avevo a casa. Mi sentivo un po’ Dr. Jekyll e Mr. Hyde, un’esperienza molto comune agli studenti fuorisede che, come me, non hanno la possibilità di tornare a casa ogni weekend.
Così ad un tratto mi sono resa conto che avrei avuto due case, oltre che due vite. Per non parlare poi di quando ho conosciuto la mia attuale ragazza, allora lì le case sono diventate tre e poi quattro o cinque (lei studia in un’altra città ancora e abita in Valle d’Aosta). Alla fine pian piano capisci che forse non ti sentirai più veramente a casa da nessuna parte, il senso di libertà diventa velocemente smarrimento. Come fare a uscirne? Come gestire una sensazione che ti segue come la nuvola di Fantozzi?
In realtà non ho la risposta a queste domande. Il tempo sicuramente aiuta, prendi l’abitudine a fare e disfare le valigie ogni due o tre mesi. Tua mamma pian piano smetterà di avere le lacrime agli occhi quando ti saluta in stazione. La verità è che si può provare a conciliare le due vite, a portare la nuova identità a casa, farla conoscere soprattutto agli amici. Credo che se chi hai lasciato ti vuole bene veramente accetterà anche la parte di te che hai costruito nella nuova città. Anche la famiglia è importante, naturalmente. Accetteranno di vederti crescere, prendere le tue scelte, diventare indipendente e responsabile. Ci vorrà un po’ di tempo, anche per loro non sarà facile.
Lentamente si crea una sorta di equilibrio e la sensazione di smarrimento pian piano svanisce, diventa accettazione. Alla fine la nostra identità non è e non sarà mai fissa e legata a una città: è fluida e cambia in continuazione. I luoghi in cui viviamo e le persone che conosciamo ci aiutano a scoprirci. Potremmo conoscere parti di noi che non sapevamo esistessero, crescere, migliorare, cambiare strada. Credo che l’importante però sia sempre e comunque accettarsi, capire che non potremo che essere solo una versione di noi stessi. Perché alla fine, diciamocelo, chi è che davvero si conosce fino in fondo?
Comments ()