Bastano delle lezioni sospese per riflettere sugli eventi drammatici che stanno colpendo la nostra società? Basta un minuto di silenzio per espiare la colpa di non voler vedere una realtà dolorosa?
Sono una studentessa da ormai 14 anni. Medie, Superiori, Università Triennale, Master ed Università Magistrale. Faccio parte di questo sistema, come in molti, senza rendermene più conto. Un lavoro a tutti gli effetti che, da stacanovista, conduco senza pormi domande e con un limitante senso del dovere.
É da 14 anni anche che in ogni percorso accademico della mia vita vedo miei coetanei scegliere di stroncare la propria vita improvvisamente. Non dimentico i loro casi, li ho impressi nella memoria come se avessi perso un amico. Lo definiscono un grande senso di empatia il mio, attraverso cui riconosco che le fragilità di un periodo possono essere così incisive da vedere nella morte l'unica soluzione possibile.
Ma non è solo empatia.
Quando sei adolescente e ti affacci all’ambiente scolastico, è sempre una scommessa. In una classe di trenta persone ci sono occhi che raccontano una nuova storia, con innumerevoli interrogativi e paure.
Il sistema in cui lavoro mi ha insegnato, però, che è meglio se te la cavi da solo. Che le tue paure agli altri non interessano, o peggio, che sono solo un veicolo per ottenere pietà. In un compito in classe di Italiano, mi aprii con una Professoressa: le feci capire che in quel momento della mia vita non avevo ben chiara la mia identità, fisica e psichica, che ero più intenta a non mangiare e a controllare il cambiamento del mio nuovo corpo che si stava trasformando in Donna, rispetto che a studiare. Speravo nell’aiuto del mio educatore, ma ricevetti solo astio per aver cercato una scusa banale alla mia “svogliatezza”.
“È nella media”. Quante volte l'ho sentito.
E mi sono convinta di esserlo, perché forse avevano ragione. Ero mediocre in tutto. Da allora iniziai a notare di coetanei che tentarono il suicidio, o di chi proprio invece ci riuscì. Chi per bullismo, chi per depressione, chi per crisi esistenziali. Il motivo non è importante, ma sembrava che con l’inizio di quel lavoro fosse cambiato qualcosa. Non lo capivo ancora.
Così, fra i dubbi, continui comunque il tuo percorso. Entri negli anni delle scuole superiori, e anche lì ti accorgi che se non ti sforzi di sbocciare da solo, pochi saranno quelli che ti daranno il nutrimento adatto per farlo.
Che assurdità. La natura di una rosa richiede dell’acqua per sbocciare, un campo aperto e soleggiato. Richiede cura.
La scuola molto spesso non si accorge del materiale assurdamente fragile che sta maneggiando. Anche per loro quello è un lavoro come un altro, certo. Ma, dietro il formale scopo dello studiare, a parlarsi sono due identità diverse: l’una in crescita, l’altra in via di definizione. "Crescere" vuol dire aumentare progressivamente, favorire lo sviluppo di qualcosa che andrà a definirsi. "Definirsi" significa determinare delle qualità, che più o meno già si sentono proprie. Ogni essere umano è veicolo per un altro di qualcosa. Ogni essere umano, a suo modo, richiede cura. A questo proposito l'ideale sarebbe porre più attenzione a ciò che realmente si trasmette all'altro.
Si necessitano perciò delle basi in cui l’accrescimento della nostra persona può avvenire nel modo più favorevole possibile. Una volta che varchiamo la porta di casa nostra, pacifico o meno che sia l’ambiente che ci lasciamo alle spalle, incontriamo il mondo. E il mondo non sempre è un terreno fertile se le persone che costituiscono le società su di esso non si pongono il problema di fornire delle basi solide di crescita a tutti. Piante, esseri umani..
Molto spesso il mondo è, invece, un ambiente arido, per lo più dedito alla sopravvivenza che alla vita.
Però poi diventi “adulto”. Raggiungi la maggiore età. E senza alcuna coscienza di te stesso ti lanciano in un’altra porzione di vita, che, il più delle volte "é necessario che tu affronti perché risulterà poi importante per il tuo futuro”, dicono. Un futuro di cui forse non si ha neanche un progetto, un’idea, un’ambizione, ma che famiglie, amici e sconosciuti credono già di conoscere.
"È ridicolo non fare l’università, ce la fanno anche gli scemi!"
Quante volte l’ho sentito.
Ritorna il senso di mediocrità ancestrale a cui anni di studio ti hanno forgiato. E così, intraprendi questo nuovo percorso attraversando gli storici archi degli ambienti accademici. Qui devi dimostrare tutto il tuo accrescimento, tutto ciò che ti ha forgiato, lo spirito con cui vuoi affrontare il tuo futuro. Ma se le basi su cui poggi fossero dissestate, ti sentiresti davvero pronto a mostrarti così tanto?
Utilizzo il verbo "mostrare" non a caso, perché l’Università è l’ambiente in cui anche per stringere una semplice amicizia devi buttarti nella mischia e metterti in gioco, mostrarti, farlo continuamente. Altrimenti rimani isolato da tutta quella macchinazione che ti permette di avere una vita accademica più piacevole. L’ambiente è impervio e non tutti, come giusto che sia, lo sentono proprio.
Io studio Filosofia e, nonostante la passione per la materia, non ho sentito sempre mio l’ambiente accademico. Mi sono sentita banale, stupida, fuori luogo; mediocre. In un ambiente in cui sembrava e volevano far sembrare che tutti eccellevano, che da lì si stessero formando i nuovi Heidegger e Hegel pronti a dare qualcosa al mondo, io volevo solo fuggire. Non potevo dare niente.
Quante volte ho pensato di mollare, di aver fallito, di dover ricominciare da qualcosa, senza sapere esattamente da cosa. Per questo sento amici i miei coetanei che hanno fatto l’assurda scelta di non vivere. Non è empatia. É esperienza.
Perché chi più chi meno abbiamo vissuto le stesse emozioni, gli stessi timori, gli stessi assurdi pensieri dettati da un banalissimo sistema che non ci ha ascoltati, guardati, toccati. Loro hanno iniziato a guardare alla vita come qualcosa da cui difendersi, che non dona ma pretende. Che richiedeva qualcosa che loro come persone non potevano dare, o che semplicemente non lo desideravano.
Ma quanto sarebbe più semplice se si potesse ascoltare le loro ragioni? Se si potesse dare uno spazio in cui uno studente che sta affrontando dei problemi sul suo lavoro identitario, universitario ecc. si senta libero di sfogarsi? La fragilità umana è qualcosa che da sempre ci spaventa e che da sempre, per colpa di questa paura ancestrale, abbiamo rinnegato.
Ho acceso la tv ieri. Si parlava del caso di Rosa Chemical a Sanremo, si parlava del compleanno di Shakira e di che tipo di mele andasse meglio nel ciambellone. Ma non si parlava del caso IULM. La morte di una ragazza che sostiene di aver fallito tutto nella sua vita a 19 anni non fa notizia, audience.
“Mamma mia comunque sono esagerati i ragazzi di oggi, non la sanno affrontare proprio la vita, ad un piccolo problema si ammazzano”.
Quante volte l’ho sentito.
Comments ()