Fatica e dedizione sono gli ingredienti per la ricetta del successo, o almeno, per molto tempo questo è stato un mantra ricorrente. Ma siamo davvero sicuri che questo scenario sia ancora realistico?
Quante volte, nella vita quotidiana, capita di imbattersi in contenuti di tipo motivazionale caratterizzati da immagini e frasi che rimandano all'importanza dell'impegno e del sacrificio per ottenere qualunque cosa? Frasi come No pain, no gain, nata dalle videolezioni di aerobica degli anni 80 di Jane Fonda, quando la body positivity e l'accettazione dei propri limiti erano ancora orizzonti lontani, sono state recuperate, ripensate e utilizzate in vari contesti per sottolineare il pensiero di base per cui il dolore, la fatica, il sacrificio siano ingredienti irrinunciabili per raggiungere l'obiettivo prefissato, che più generalmente si può identificare come successo.
I contenitori entro cui si declinano tali contenuti sono di vario tipo: che si tratti di allenarsi per ottenere la forma fisica perfetta, lavorare e guadagnare per acquistare beni materiali simboli di privilegio oppure impegnarsi per ottenere titoli e riconoscimenti che definiscono il valore di una persona non solo nella propria sfera professionale ma più ampiamente nella società. Si tratta di un approccio alla vita e alla convivenza con gli altri esseri umani profondamente incentrato sulla competitività e su una visione gerarchica e verticale dell'assetto sociale.
Oggigiorno, con la massiva presenza dei social network nella vita quotidiana di chiunque, tali contenuti sono ancora più facilmente raggiungibili e pubblicizzati, creandone una doppia lettura ancora più ingannevole. Le carriere di molti influencer consistono proprio nel presentare una vetrina della propria esistenza basata su positività, ricchezza, benessere e bellezza da ostentare ai più. Da un lato si fa leva sulla natura democratica del mezzo utilizzato per realizzare quel successo: i social sono strumenti accessibili a tutti, pertanto chiunque potrebbe realizzarsi attraverso questi ultimi. Però non tutti ci riescono, ed ecco che si attiva la seconda dimensione: se un influencer di successo ce l'ha fatta e individuo XY no e hanno a disposizione gli stessi mezzi, è perchè individuo XY non ha impiegato abbastanza risorse, non ha fatto tutto quello che avrebbe potuto e dovuto, se davvero avesse voluto. Individuo XY quindi non vale abbastanza.
Il processo di fascinazione e aspirazione a questi risultati si svolge con le dinamiche dell'incantesimo: foto e video di paesaggi incredibili, viaggi obiettivamente irrealizzabili per la grande maggiornaza della popolazione, location e abitazioni inaccessibili, a portata di click. La distanza che si crea tra fine e mezzo è ridotta al minimo, sembra quasi che quel click porti un po' più vicini a quel risultato; dopotutto si tratta di un insieme di click effettuati al momento giusto con i giusti contenuti. Eppure il suo effetto è quello di ampliare drasticamente il divario sociale. Alla fine Chiara Ferragni trascorrerà comunque il capodanno a Saint Moritz, il resto del mondo si troverà in piazza, con il prosecco del supermercato.
Oggi la cultura del successo viene messa in discussione grazie a una maggiore sensibilizzazione sull'accettazione dei propri limiti. Influencer e personaggi pubblici si impegnano a svelare i retroscena di un'apparenza più fragile di quanto sembri.
Nonostante ciò, questo mito ha radici molto profonde e antiche che si sono instaurate come solida base su cui la cultura occidentale si è costruita nel corso dei secoli.
Il mito del successo proviene dalla cultura del sacrificio e della dedizione che si può racchiudere in quello che viene definito American Dream: solo attraverso il duro lavoro si può ottenere un risultato. Questo concetto, qui molto semplificato, deriva dall'etica calvinista dei padri fondatori degli Stati Uniti. Senza voler riproporre una lezione di storia americana, quello che importa sottolineare è che quando, nel corso dei secoli, la potenza americana si afferma sulle altre potenze mondiali e plasma a sua immagine e somiglianza la quotidianità di altri Paesi, si verifica un'operazione di esportazione culturale che non può tralasciare il mito del successo. Tale mito prende ulteriormente forma attraverso l'affermazione del mondo di Hollywood e dello Star System: il cinema prende i volti dei professionisti del settore e inizia a costruirvi intorno una narrazione di elevazione sociale e riconoscimento decretati dal loro successo, sia in virtù delle proprie abilità artistiche ma anche e soprattutto grazie a un fattore X identificabile nel concetto di glamour, cioè un insieme di tratti estetici e attitudini che rendono un individuo apparentemente superiore agli altri.
Questo enorme bagaglio culturale si propone come cardine della parte occidentale del mondo e fortifica la sua solidità attraverso la logica del capitale.
Per capire l'effetto sociale di questo fenomeno principalmente economico, bisogna fare una piccola osservazione sul significato e sul funzionamento di neoliberalismo, dottrina economica ideata dopo la Seconda Guerra Mondiale e applicata a partire dagli anni 60, proposta come soluzione a un liberalismo che si era rivelato fallimentare. Il neoliberalismo si può definire come "una razionalità politica ormai diventata globale, che consiste per i governi nell'imporre all'interno dell'economia, ma anche della società e dello Stato stesso, la logica del capitale, fino a farne la forma della soggettività e la norma dell'esistenza." [1]
Al di là delle definizioni teoriche, ci sono due tratti molto concreti che caratterizzano il neoliberalismo e che è bene tenere in considerazione rispetto al tema del valore della fatica.
Innanzitutto il neoliberalismo vuole diminuire l'intervento dello Stato nell'economia e nel welfare, favorendo il libero andamento del mercato.
In secondo luogo ma altrettanto fondamentale è il fatto che il neoliberalismo favorisce lo spostamento dell'asse sociale verso il centro a scapito delle periferie. Con periferie si intendono non solo le zone che si trovano ai confini delle città, "ma più in generale tutte le forze marginali della società" [2] , ovvero categorie sociali considerate deboli come donne, anziani, migranti, ecc.
Dunque, sotto il profilo economico il neoliberalismo si può intendere come un sistema che sostituisce la gestione pubblica favorendo il privato e avantaggiando chi consuma e, sicuramente, chi investe. In una prospettiva più umanistica, il presupposto di questo sistema è che vengano privilegiati l'iniziativa individuale e il singolo, a cui il resto degli altri singoli non dovrebbero porre alcun limite. La conseguenza è necessariamente quella di una "solitudine organizzata" [3] in cui l'obiettivo è la produzione collettiva ma operata per mano del singolo, convinto di lavorare per se stesso.
Questa panoramica sul neoliberalismo si può concludere portando alla luce alcune parole chiave che tornano centrali nel discorso sul valore della fatica. Questo sistema richiede ai suoi "operai" efficienza, resilienza, flessibilità e autosuffienza, pena il mancato raggiungimento del proprio obiettivo. Tutti questi concetti inducono a credere che il successo sia il risultato matematico di fattori la cui corretta combinazione non può che portare a un'unica conclusione. Se il risultato non viene prodotto significa che tali fattori non sono stati adeguatamente utilizzati. Il fallimento è una colpa riconducibile alla scarsa qualità dell'applicazione dell'individuo, che non si è impegnato abbastanza, non ha sacrificato abbastanza tempo e risorse per conseguire il risultato di quella meccanica operazione.
Sembra abbastanza evidente che una società costruita su tali presupposti premi il risultato piuttosto che il percorso con cui è stato ottenuto. Di conseguenza qualunque misura di sforzo, impegno, sacrificio sono sdoganate purchè si ottenga quel determinato obiettivo, il cui valore è spesso accresciuto proprio dalla difficoltà impiegata per conseguirlo.
Eppure nella storia di questo sistema economico che racconta di come il successo sia il risultato di un'operazione matematica, qualcosa non torna.
Come fa notare il filosofo francese Michel Foucault, ci si trova di fronte a un paradosso: ogni individuo partecipa allo sviluppo del sistema convinto di lavorare per se stesso quando in realtà lo scopo è il successo e il profitto altrui. [4] Pertanto, nonostante la prospettiva di autoaffermazione e libertà individuale, è imprescindibile il concetto di appartenenza a una collettività il cui buon funzionamento è imputato a ciascun individuo. Dunque perché eludere la dimensione comunitaria e promuovere solo quella individuale?
Una risposta potrebbe essere la volontà di far leva sul senso di affermazione e sopravvivenza proprio dell'uomo e indurlo a focalizzarsi sul proprio interesse, indorando così la pillola dello sforzo per il bene comune. Tuttavia, questa prospettiva rischia di indurre il singolo a pensare solo e unicamente al proprio bene, sentendosi autorizzato ad agire secondo la logica dell'homo homini lupus, legittimando ogni mezzo e modo, anche e soprattutto a scapito altrui, pur di garantire il proprio vantaggio. E tanti cari saluti al senso comune. Sarebbe dunque auspicabile procedere attraverso un'ulteriore sensibilizzazione rispetto agli scopi e ai vantaggi della collaborazione, del rispetto e della spartizione dei compiti per il corretto funzionamento sociale e comunitario.
In secondo luogo, la formula magica del successo dimentica un dettaglio forse marginale ma inevitabile: l'imprevisto. Quante volte capita di attendere con ansia l'arrivo di una prova importante come un esame, un concorso, un colloquio di lavoro e prepararsi per questo evento come se dalla sua riuscita dipendesse la vita stessa, per poi fallire a causa di fattori come un mal di testa improvviso, un treno in ritardo, una domanda poco chiara, un'informazione non elargita che, seppur senza malizia, compromette la riuscita dell'intera prova?
Per riportare il discorso alla contemporaneità e analizzarlo in una prospettiva sempre più centrale nel dibattito pubblico degli ultimi anni, si può far riferimento al discorso sui giovani e sul loro modo di approcciare la vita, il lavoro, le responsabilità. Tema scottante soprattutto per i tragici episodi di cronaca che raccontano di come molti giovani non riescano a sopportare il peso delle incombenze universitarie, lavorative e sociali, è un campo ampio in cui collocare una riflessione sul valore della fatica. Anche qui i canoni da rispettare sono imposti da un assetto sociale che si basa su dati medi e stime che spesso non contemplano l'imprevisto e la specificità del singolo caso.
A tal proposito si pronuncia la psicologa e scrittrice Stefania Andreoli (https://vm.tiktok.com/ZNewFPAeN//) in un discorso che tematizza specificamente il rapporto tra i giovani adulti e le generazioni precedenti.
Andreoli sottolinea un concetto fondamentale per il discorso sul valore della fatica, che vi si rapporta in modo antitetico: il concetto di fragilità. "Se si parla, e sottolineo se, dei giovani adulti, al massimo lo si fa per calare loro dall'alto il merito di aver sdoganato la fragilità, ma non senza mancare di intendere tra le righe che in fondo la fragilità va bene eh, però dài, è roba per chi non ce l'ha fatta. Cioè la fragilità è roba per chi alla fine ha fallito, per chi non ha performato, per chi alla fine non si è omologato a una certa idea dello stare al mondo di chi è più vecchio di loro."
Il discorso di Andreoli si sviluppa in modo più approfondito riflettendo sulla fatica di questa fascia di popolazione che lei preferisce definire "adulti giovani" nel riconoscersi come elementi sociali e identificarsi adeguatamente rispetto al contesto. Da un lato si trovano trascinati dalle aspettative e dal modus vivendi dei padri, e dall'altro sono sospinti dalla sensazione che quei tempi e quei modi non siano più i loro. Anzi, forse non lo sono mai stati. Ed è proprio in questo conflitto di tempi e modi che Andreoli individua il cortocircuito:"Questi adulti giovani non stanno affatto sdoganando la fragilità, non stanno rivendicando di poter fallire [...] stanno al contrario rimettendo al centro un'idea di qualità come unico criterio possibile per una vita di salute."
Ecco allora che l'asse della fatica si sposta: non si tratta di una battaglia alla legittimazione della fragilità e dell'errore, finendo nella rassegnazione di fronte al limite e accettandone l'insuperabilità. Al contrario, ciò che questo cortocircuito deve far emergere è la necessità di affrontare apertamente un dialogo tra parlanti di lingue differenti la cui mediazione e comprensione è fondamentale per superare le categorie di giusto e sbagliato e raggiungere una strada terza, soluzione diversa, nuova ma comunque accettabile.
Sarebbe incredibilmente rassicurante e comodo dunque poter ricorrere costantemente all'operazione matematica per cui la somma degli addendi non cambia il risultato. Eppure. Eppure la vita reale è fatta di sbavature, ritardi, coincidenze perse e momenti di confusione che se ne infischiano altamente della teoria del neoliberalismo. La vita è fatta di tutte queste imperfezioni che fortunatamente esistono e la rendono vera perchè è proprio dall'errore e dall'imperfezione che emerge il vero valore della fatica. Esso risiede nella consapevolezza e nell'accettazione: della difficoltà, dei limiti di cui non si può fare a meno, degli imprevisti e delle diversità che portano ad affrontare differentemente le stesse prove senza per questo disconoscerne il peso e l'importanza e senza dover necessariamente risultare superficiali e inadeguati rispetto a modelli imposti dalla società, dalla famiglia, dal contesto che forse ormai non reggono più.
P. Dadarot e C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, tra. RIccardo Antoniucci, DeriveApprodi, Roma 2019. ↩︎
G. Duménil e D. Lévy, The Neoliberal (Counter-) Revolution, in A. Saad-Filho e D. Johnston (a cura di), Neoliberalism. A Critical Reader, cit. ↩︎
The Care Collective, Manifesto della cura. Per una politica dell'interdipendenza, trad. di Marie Moï e Gaia Benzi, Alegre, Roma 2021. ↩︎
J. Guerra, Il femminismo non è un brand, Einaudi, Torino, 2024. ↩︎
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