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L’importanza della cittadinanza spiegata con la filosofia

Cosa significa avere diritto alla cittadinanza nel paese in cui si vive? In che modo essere cittadini aventi diritto è utile non solo al singolo, ma a tutta la comunità e di riflesso anche alla politica? Ricostruiamo l'importanza di questo diritto da Aristotele a Martha Nussbaum.

Tra doveri e diritti della cittadinanza: in che modo essere cittadini aventi diritto è utile non solo al singolo, ma a tutta la comunità e di riflesso anche alla politica.

 La cittadinanza come dovere civico e morale:

·       Aristotele

Aristotele è uno dei primi filosofi a trattare esplicitamente il tema della cittadinanza. Nell'opera "Politica" espone il suo pensiero partendo dal concetto di famiglia e tribù, le due organizzazioni primigenie che precedono lo Stato, ultimo e completo ente in grado di soddisfare i bisogni dei cittadini, preservandone la proprietà privata, la famiglia e la vita sociale.

Tra le forme di governo che Aristotele esamina c’è la Politica, quella che oggi chiameremmo democrazia, soggetta al rischio di degenerazione demagogico. Parlando dell’appartenenza a uno Stato giusto e al mantenimento della sua costituzione, Aristotele introduce il concetto di cittadinanza: non si tratta solo di una questione di appartenenza a una comunità, ma implica anche la partecipazione attiva alla vita politica. Il cittadino ideale, per Aristotele, è colui che contribuisce al bene comune, partecipando direttamente alla gestione dello Stato.

·       Cicerone

Cicerone, in opere come il "De Re Publica", sviluppa l'idea della cittadinanza romana come dovere civico e morale. Per lui, la cittadinanza è strettamente legata al concetto di virtù e servizio alla comunità. La parola stessa “Repubblica” fa riferimento alla cosa pubblica, ovvero di tutti: un’associazione di uomini, che nasce dalla condivisione del diritto, per tutelare il proprio interesse. Preservare la “cosa di tutti” è funzionale a preservare il “diritto dei singoli”.

Nel “De Re Pubblica” Cicerone non teorizza uno Stato ideale, ma rimane ancorato alla condizione dello Stato romano, che lui conosce e vuole preservare. In quest’ottica l'idea di civitas esprime un ideale di partecipazione attiva alla vita pubblica, fondata su un comune rispetto delle leggi e delle tradizioni della Repubblica.

Sia nell’antica Grecia, che nella Roma di Cicerone quindi la cittadinanza era legata all’attivismo, alla possibilità di poter fare. Una visione che cambia profondamente nella concezione moderna di cittadinanza.

La cittadinanza come cessione dei propri diritti allo Stato:

Con i teorici dell’assolutismo monarchico, l’idea stessa di cittadinanza subisce importanti modifiche. L'attenzione si sposta da ciò che il cittadino può fare grazie a essa a ciò che  deve fare per essa. Cittadinanza non è più solo poter avere voce in capitolo nella “cosa pubblica”, ma esprime anche gli obblighi che si hanno in cambio dei diritti che si ricevono.

·       John Locke

Locke nell’opera "Due trattati sul governo", sviluppa un concetto di cittadinanza basato sui diritti naturali. Per Locke, così com'era stato per Thomas Hobbes, la cittadinanza si fonda su un contratto sociale stipulato tra i cittadini e lo Stato, dove i primi cedono parte della loro libertà in cambio di protezione e di tre diritti fondamentali: vita, libertà e proprietà. Questo contratto si rivela fondamentale poiché l’iniziale stato di natura, in cui gli uomini vivono e si autogovernano, non è esente da rischi. Gli individui prima o poi entrano in competizione per scarsità di risorse, limitando a vicenda i propri diritti. Pertanto, la partecipazione politica, la scelta di sottoscrivere un contratto e la protezione dei diritti individuali sono centrali nella sua idea di cittadinanza, che comprende dei diritti, ma soprattutto si basa sul dovere.

·       Jean-Jacques Rousseau

Con Rousseau ci avviciniamo a un significato di cittadinanza, che non ha solo una matrice politica, ma anche sociale, in cui diritti, doveri e libertà si intrecciano a formarne un significato quanto più vicino a ciò che intendiamo noi , oggi.  Nel "Contratto sociale" il filosofo sviluppa l'idea di un patto tra individui che si uniscono per formare una volontà generale. L’uomo “nasce libero ma muore in catene” molto solide, che è possibile allentare solo dando potere decisionale alla maggioranza. La cittadinanza per Rousseau implica l'uguaglianza e la partecipazione attiva di ogni individuo alla formazione delle leggi che regolano la società; non è solo un insieme di diritti, ma comprende anche doveri nei confronti della comunità. Ci avviciniamo così al nostro ideale moderno che la vede come insieme di diritti soggettivi che occorre difendere qualora le autorità li vogliano sopprimere.

LA CITTADINANZA COME AUTONOMIA MORALE:

·       Immanuel Kant

Kant sviluppa il concetto di cittadinanza in relazione alla moralità e alla legge. Distingue tra cittadino attivo e cittadino passivo: solo chi è economicamente indipendente può essere considerato un cittadino attivo e quindi partecipare pienamente alla vita politica. Kant quindi considera la cittadinanza come legata all'autonomia morale e alla capacità di rispettare le leggi dello Stato.

·       Hannah Arendt

Seguendo il filo tessuto da Kant, Hannah Arendt in "Le origini del totalitarismo”, riflettendo su totalitarismo e diritti umani, esplora la condizione degli apolidi e il fallimento degli Stati nazionali di garantire i diritti civili. Per Arendt, la cittadinanza non è solo appartenenza formale a uno Stato, ma implica partecipazione attiva alla vita pubblica e politica, il che è essenziale per la realizzazione della libertà.

“Privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, schiuma della terra.”

E’ la frase con cui la filosofa introduce la sua tesi in “le origini del totalitarismo”. I privati dei diritti umani, di cui Arendt parla sono i profughi e i migranti tra le due guerre, un fenomeno massiccio di cui la studiosa sottolineava i caratteri di novità e i profondi legami con la crisi dello Stato nazionale. Nel mondo interconnesso in cui viviamo oggi se un’ampia parte di popolazione è costretta a fuggire, il problema non è mai solo del paese da cui scappa, ma ha radici più profonde. Quando Arendt scrive questa parole, sono migliaia i profughi di guerra e coloro che fanno parte delle minoranze nazionali sorte dai trattati di pace sanciti dopo la guerra. Migliaia di persone prive di un’identità geo-politica e che devono essere reintegrate in qualche modo. Ma oltre a queste nuove minoranze, che aspettano di essere reinserite in luoghi di cui non condividono cultura, lingua, usanze, c’era anche un’abbondante fetta di apolidi, rifugiati che non si sapeva come trattare, un po' come accade oggi a tutte quelle persone, che vengono nel nostro paese per sfuggire a guerre o altre situazioni difficili. Con l’attuale legge sulla cittadinanza, salvo non venga modificata in risposta alla richiesta di referendum (il cui quorum è stato raggiunto lo scorso 30 settembre), apolide non è solo chi migra da un luogo a un altro o chi fugge dalla sua patria, ma anche chi nasce in Italia, ma ha la sfortuna di avere familiari di origine diversa da quella italiana.

Le problematiche che sorgono da questa condizione di non-luogo, di animale non-sociale (per dirla con Aristotele), perché escluso da gran parte delle leggi della comunità, sono analoghe a quelle che già Arendt aveva individuato in tempi non sospetti, quando il fenomeno poteva  ancora permettersi il lusso di essere chiamato “novità”.

Parafrasando le parole di Hannah Arendt:

-        L’apolide, era nella condizione di violare la legge, con tutto il paradosso che  comporta la violazione di una legge per chi in realtà ne è fuori. L’apolide violava la legge standone fuori, come se il delitto fosse la condizione stessa della sua esistenza. -

Nel momento in cui lo Stato nazionale non può trattare gli apolidi come soggetti giuridici e lascia aperto lo spazio d’azione all’arbitrio delle misure poliziesche, difficilmente resiste alla tentazione di privare i cittadini del loro status -

Cosa rimane a un essere umano che vive in uno Stato quando gli viene negato il diritto di esserne cittadino? Quando parliamo di essere umano facciamo spesso riferimento alla sua cultura, ma la cultura cambia a seconda del popolo di cui si fa parte. Ma a quale cultura e a quale popolo appartengono tutti quei bambini, futuri adulti, nati in Italia ma con la cittadinanza del paese di origine dei loro genitori? Stranieri per l’Italia e stranieri per il loro popolo finiscono per non averne alcuno. Lo stesso termine “essere umano” è ambiguo: nasce per indicare la nostra differenza rispetto ad altre specie viventi, ma assume quasi sempre un significato antropologico e sociologico, inscindibile dal luogo da cui proveniamo.

Se è vero, come abbiamo detto in precedenza, parlando di filosofia, che la cittadinanza comporta doveri e diritti, quali sarebbero quindi i doveri e i diritti rimasti tolta la cittadinanza?

Hannah Arendt ritiene che la disgrazia dei senza patria sia proprio questa: essere senza una patria. L'assenza, perché l’assenza di proprietà, felicità e persino di libertà non porta a un’assenza di diritti ad interim, ma a una sospensione che può essere recuperata; viceversa l’esclusione da una comunità comporta la perdita di uno status giuridico e con esso di qualunque tutela.

LA CITTADINANZA COME CAPACITA’ DI SVILUPPARE LE PROPRIE POTENZIALITA’

·       Martha Nussbaum

Nussbaum ha ampliato il concetto di cittadinanza con la teoria delle capacità. In "Non per profitto", sostiene che la cittadinanza debba essere vista non solo come un insieme di diritti legali, ma come capacità effettiva di ogni individuo di sviluppare e realizzare le proprie potenzialità. L'educazione in particolare gioca un ruolo cruciale nella formazione di cittadini completi, partecipativi e competenti.

E proprio prendendo spunto dalla formazione e istruzione ci sarebbe da chiedersi; cosa rende un cittadino tale? In che modo chi è in Italia da anni non dovrebbe esserlo? Non è una perdita di investimento da parte dello Stato che contribuisce a formarlo culturalmente e anche socialmente ma non ne ammette la presenza culturalmente? Lasciamo per un attimo da parte la componente etica e morale del problema e pensiamo in maniera anche egoistica; lo Stato deve pensare in maniera funzionale, la stessa democrazia non è la politica di tutti, ma della maggioranza; ma allora in questa chiave funzionale e utilitarista a cosa serve una persona culturalmente formata come italiana ma non italiana? La perdita di risorse è ingente, paragonabile al problema della cosiddetta “fuga di cervelli” che tanto sentiamo denunciare dai media. È il paradosso del nostro paese, investire su persone i cui frutti del loro studio non verranno mai raccolti dallo Stato perché o li costringe a emigrare, o li considera eterni migranti e non li riconosce.

Bibliografia:

  • Diritti umani e cittadinanza in Hannah Arendt di Adriana Lotto
  • Essere per la morte di Agamben Il volto e la morte. Testo pubblicato sulla «Neue Zürcher Zeitung», 30 aprile 2021
  • rivista di filosofia del diritto internazionale della politica globale- Jura gentium