Giulia Cauti esplora il trauma e la trasformazione attraverso bio-materiali, performance e pratiche collettive, intrecciando arte, corpo e natura in un rituale sensibile e politico.
Giulia Cauti è un’artista visiva, costumista e performer. Il suo lavoro esplora le percezioni trasformative del tempo, della materia e del trauma, attraverso l’utilizzo di biomateriali e tecniche di movimento. Il suo approccio unisce gesto, materia e narrazione. Progetti come Trauma(tanz) e TRAUM + RAUM = TRAUMA esplorano la vulnerabilità corporea attraverso scenografie effimere e mappature del trauma incarnato. Seguendo l’idea di Joseph Beuys, per cui la rivoluzione è radicata nella quotidianità, Cauti lavora su una pratica artistica che è anche cura, politica e rituale. Attualmente, grazie al grant Italian Council promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea, la sua ricerca si espande verso epistemologie non occidentali, approfondendo la propria doppia eredità italo-brasiliana.
Durante una breve intervista ci racconta che per lei i biomateriali che utilizza «hanno un valore nel momento in cui rappresentano qualcosa di invisibile. È un sentire, prima ancora che un creare». Con queste parole possiamo aprire uno squarcio per analizzare la sua poetica e la sua mostra “Nhandejara”, a cura di Beatrice Ciotoli e Irene Iodice. Una visione che trova casa nello Spazio Iris, progetto indipendente ideato da Maura Prosperi, che ha fatto della contaminazione tra esperienze e linguaggi il proprio manifesto curatoriale. La mostra si inserisce nella serie tematica dedicata all’aggettivo “Naturale”, che ogni artista coinvolto ha decostruito secondo la propria visione

Il titolo della mostra deriva dal tupi-guaraní: Nhandejara è l’energia creatrice che connette ogni cosa. Un concetto che rispecchia in pieno il percorso di Cauti, che da anni indaga il trauma attraverso i biomateriali, nella tensione continua tra personale e collettivo, tra corpo e natura, tra ferita e rigenerazione. La pratica dell’artista si muove attorno al concetto di trauma, inteso anche come TRAUM (sogno) RAUM (spazio), da cui il suo progetto TRAUM + RAUM = TRAUMA. Ma cosa succede quando il trauma, lungi dal restare esperienza intima, si fa terreno comune? È la domanda che attraversa tutto il suo lavoro recente. «Nella mia pratica non sono così importanti i sentimenti personali quanto ciò che di essi può essere visto in ottica collettiva. Mi interessa dare forma a esperienze condivisibili, che possano diventare occasione di comunità», racconta l’artista.
Questa riflessione si intensifica durante il suo soggiorno in Brasile, dove Cauti ha vissuto un’immersione diretta in pratiche ancestrali femminili come i canti nei Circoli Sacri Femminili presso Aldeia Maraka’na Di Rio de Janeiro. L’artista, su questi rituali collettivi, ci racconta: «in una di queste occasioni, ho partecipato a un bagno di erbe con un gruppo di donne in cerchio. L’intento era quello di riportare fiducia nelle nostre potenzialità creative. Un gesto semplice, ma potentissimo». Durante il suo viaggio ha conosciuto donne leader e attiviste, come Potyra Guajajara e Yakuy Tupinambà, e centri come Útero Amotara Zabelê, veri e propri spazi di resistenza e creazione transculturale.

Nella sua esperienza in Brasile partecipa anche alla bio-costruzione collettiva con materiali naturali come argilla, bambù e terra. Da questa esperienza nasce il workshop creativo rivolto a donne del territorio abruzzese, culminato in una performance collettiva durante il mattino dell'opening. Il gruppo di donne, dopo una serie di esercizi artistici e creativi, ha realizzato ognuna un uovo in argilla. Le uova prodotte durante la performance sono state poi modificante dal pubblico durante l’opening della mostra. Le opere nate da questa esperienza – forme fragili, intime, a volte abbozzate, mai retoriche – sono esposte nello spazio come testimonianze tangibili di una condivisione. L’argilla è utilizzata come veicolo simbolico di ritorno alla terra. L’utilizzo di biomateriali, per l’artista, è simbolo e strumento: «Sono materiali che si sciolgono, che cambiano col calore, che si possono cucinare. Mi interessa la loro fragilità, ma anche la possibilità di rinascita. È la stessa visione che ho del trauma: non una condanna, ma una possibilità di trasformazione». Cauti non vede il valore nell’oggetto, ma nell’azione che l’ha generato e nella memoria del gesto generativo.

Dice Cauti, «l'opera d'arte non nasce solo nel momento in cui viene creata. Per me è tutto ciò che precede: l’incontro, la riflessione, l’ascolto. Non c’è una divisione tra arte e vita». Con “Nhandejara”, Giulia Cauti mette in scena una poetica fatta di materia viva, di racconti, di mani che modellano, di saperi incarnati. Invita a riflettere su fertilità, autonomia, corpo e sacralità del femminile, in un momento storico in cui è urgente riscoprire la potenza trasformativa del gesto artistico collettivo. In questa mostra, l’arte si fa rito, la terra si fa voce.

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