Recensione dello spettacolo teatrale di Lorenzo Guerrieri con l'aggiunta di informazioni e riflessioni estrapolate dalle interviste effettuale all'attore e ai rappresentanti dell'associazione Ippogogo.
Sabato 22 novembre siamo state invitate a partecipare allo spettacolo Esercizi di resurrezione di Lorenzo Guerrieri per la rassegna oScena 2025/2026 dell’associazione Ippogogo. Quest’ultima si occupa dal 2022 di spettacoli teatrali dal basso, con la volontà di avvicinare al teatro persone che ne sono completamente estranee, ribaltando piacevolmente l’idea che il teatro appartenga necessariamente alla cultura high-brow. L’esigenza comune dell’associazione e dei partecipanti al laboratorio è quella di fare teatro stando insieme. A Bologna, gli spazi indipendenti dedicati alla prosa sono pochi, motivo per cui il loro tipo di teatro cambia nel tempo, seguendo le sfide e le domande che la contemporaneità impone. Come dichiarato dai presidenti dell’associazione stessa, il motto che li rappresenta è: «Dobbiamo continuare a camminare domandando.»
Arrivando con largo anticipo, abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con l’attore circa le modalità di ideazione della messa in scena e le motivazioni che lo hanno spinto a portare proprio sul territorio bolognese questo spettacolo. Ne è emerso un interessante dibattito sulla condizione generale dell’individuo in rapporto con i paradigmi della società attuale, primi tra tutti i social e la solitudine. In risposta alla domanda riguardo all’origine di Esercizi di resurrezione, Lorenzo ci risponde testualmente:
«Lo spettacolo nasce da una contraddizione, da due domande che non riescono a convivere, da qualcosa che non si comprende del tutto. Come si può tenere insieme la felicità e la disperazione? Nasce dall’individualismo e dalla solitudine che ciascuno di noi cerca, in una società che spinge all’autorealizzazione a tutti i costi. Dalla disperazione di essere rinchiusi nel nostro “io imprenditoriale”, segno di una crisi profonda dello stare insieme. Siamo tutti chiusi dentro una bolla, dalla quale è difficile uscire. L’“io” è diventato qualcosa di tumorale: facciamo fatica a metterci nei panni degli altri, a cedere anche solo un po’ di noi stessi. E così ci ritroviamo soli, ma è una solitudine che, in fondo, abbiamo cercato noi».
Ciò che rende questo spettacolo sui generis è la scarsità di oggetti scenici, tra i quali troneggia la presenza di uno scheletro, elemento fortemente evocativo e da sempre connesso all’idea di morte che è stato risemantizzato da Lorenzo in maniera del tutto originale.
«Lo scheletro rimanda al tema della depressione, che non riguarda solo una diagnosi psichiatrica, ma un’esperienza comune a tutti: un certo tipo di rapporto con una parte di noi più fragile, più esposta, quella che subisce i colpi del mondo più della nostra parte attiva. Un tempo, forse, la si sarebbe chiamata “anima”. Per me, lo scheletro rappresenta proprio questo: un dialogo con me stesso, con quella parte che rifiuto, in quanto associata al dolore, alla negatività, cercando di trasformarla in qualcosa di produttivo, di efficiente, di “imprenditoriale”. Lo scheletro è il rimosso, ma nello spettacolo diventa un vero e proprio personaggio, con cui intrattengo un rapporto dai tratti comico-grotteschi».
Abbandonando le vesti da intervistatrici, ci spostiamo al Gogo bar e, sorseggiando una birretta, chiacchieriamo con varie tipologie di spettatori in attesa dell’inizio dello spettacolo. Qualche sguardo alle sedie occupate: in prima fila ci sorprendono gli over60, seguiti dai più rumorosi giovani nelle sedute posteriori. Calano le luci e i passi di Lorenzo verso il palco ci confermano che la performance sta iniziando.
Attraverso l’uso del monologo il protagonista prova a spiegarci perché, quella mattina, si è svegliato putrefatto. Rivela lo scheletro situato sotto ad una coperta ed inizia ad interagire con quello che è, a tutti gli effetti, il suo alter ego. Preso dal panico causato dalla realizzazione di non avere più un corpo chiede aiuto i pompieri (interpretati da Lorenzo) che di tutta risposta si prendono gioco di lui. Infatti, quando lo scheletro prova a mettersi a nudo, manifestando il suo smarrimento e il suo dolore per scoprirne l’eziologia, il 115 risponde con un classico, quanto irritante, luogo comune: «Fatti forza! Datti un cinque e pensa di essere un vincente!»
Senza soluzione concreta al suo malessere, decide di evadere connettendosi.
È qui che prende vita l’obiettivo e il fulcro tematico della rappresentazione, rimandando a tutti quegli stimoli visivi e sonori a cui i social ci espongono costantemente: video di gattini, spam pubblicitari, influencer e guru dell’imprenditoria. Risultano centrali anche i video motivazionali che, sappiamo benissimo, essere ancora più dannosi per chi non è in grado di individuare l’origine del suo malessere.
Dopo tutte queste premesse lo spettacolo non si conclude con una scena risolutiva, ma ciò non ne costituisce un aspetto negativo, bensì pone in essere l’obiettivo dell’attore, ossia normalizzare e vivere momenti di difficoltà e di dolore. In una società che ci dà continui stimoli e che ci obbliga ad una produttività quasi ossessiva, concepire dei periodi di stasi e di afasia diventa immediatamente sinonimo di fallimento. Senza considerare che, proprio questi aspetti, vengono estremizzati sui social, una vetrina che sostituisce ai manichini vestiti di tutto punto, ideali di perfezione fisica e professionale che alimentano in noi inadeguatezza e smarrimento. L’ultima spiaggia diventa così l’“auto-isolamento” per evitare di metterci in competizione anche con chi ci è più vicino.
L’immediatezza del linguaggio di Lorenzo e il suo stile grottesco ci hanno dato la possibilità di ridere dei drammi contemporanei e ripensare a quegli aspetti che minano la nostra società ma che inconsciamente continuiamo a riprodurre. Per spezzare questa catena di automatismo, dovremmo comprendere che la vera realizzazione del sé non avviene in funzione dell’individualismo, bensì attraverso la condivisione e il comune obiettivo di raggiungere la felicità.
Comments ()