L'Italia scende in piazza. Da Ghali e Dargen D'Amico ai presidi sotto alle sedi Rai. La protesta di chi afferma un servizio pubblico deformato e sottomesso a TeleMeloni.
In questi giorni, diversi presidi si stanno radunando sotto alle sedi Rai di Napoli, Torino, Milano, Roma, Bologna, Bari. Malgrado la risposta a colpi di manganelli della polizia, c’è chi scende in piazza per contestare le dichiarazioni di mamma Rai. “La mia solidarietà al popolo di Israele e alla Comunità Ebraica è sentita e convinta”: la voce è di Mara Venier, il contenuto di Roberto Sergio. A seguito del primo presidio, il Viminale ha messo sotto scorta l’Amministratore delegato Rai.
Riavvolgiamo il nastro. Iniziato con “Bella ciao” intonata da Amadeus e Mengoni durante la conferenza stampa, proseguito con l’arrivo della protesta dei trattori e della pubblicità occulta di John Travolta, e concluso con la vittoria di Angelina Mango (finalmente sul podio una donna), il Festival di Sanremo ha dato nuovamente di che parlare. Ma questa volta la polemica vera e propria è scoppiata a sipario calato.
Il primo scandalo arriva con la lettura del comunicato Rai a meno di 24 ore dalla conclusione del Festival. I vertici Rai prendono le distanze dalla posizione politica di Ghali, il cantante che sul palco dell’Ariston aveva chiesto lo “stop al genocidio”. Un chiaro messaggio contro i bombardamenti di Netanyahu nella striscia di Gaza. L’appoggio Rai a Israele, attraverso il programma Domenica In, arriva poche ore dopo un post su X di Alon Bar, l’Ambasciatore di Israele a Roma:
A seguire, sullo stesso programma TV, un altro intervento politico in diretta nazionale. Ancora un cantante. Dargen D’Amico apre le danze al secondo scandalo. Rispondendo a una domanda dei giornalisti, il cantante milanese ricorda la delicata [toglierei “delicata” che mi suona riduttivo] situazione dei migranti che giungono in Italia, ma viene prontamente zittito da Mara Venier. La conduttrice di Domenica In censura D’Amico e chiede ai giornalisti di non metterla più “in imbarazzo” con domande che necessiterebbero un'altra sede di discussione. Agli occhi del pubblico l’informazione appare deformata e sottomessa al potere della destra italiana. Ad aggravare questa percezione è la rimozione di queste scomode dichiarazioni da RaiPlay (ora reintegrate) e la consapevolezza che la nomina del Consiglio d'amministrazione della televisione pubblica provenga dal governo e dalla maggioranza parlamentare, un'eccezione rispetto alla libera informazione del resto d'Europa.
Questi sono i due momenti che più hanno scombussolato gli equilibri del palinsesto Rai e l’opinione pubblica. Chi afferma che la nuova egemonia culturale passi attraverso i canali di TeleMeloni e che in onda venga trasmessa una destra incapace di accettare la critica di due giovani cantanti, alimenta la tempesta mediatica. Da qui nasce l’idea di esprimersi anche fuori dai social scendendo in piazza a favore del popolo palestinese. Terminato il presidio di Napoli, una manifestante racconta:
La prima cosa che ha fatto la questura è stato darci una prescrizione. Era evidente che da parte delle forze dell’ordine non c’era la volontà di sostenere un’iniziativa pacifica, ma di esacerbare gli animi. C’è stato uno schieramento di celere soprannumerario rispetto alle persone che stavano facendo il presidio. Nel momento in cui noi manifestanti ci siamo avvicinati per chiedere che un dirigente della Rai scendesse per interloquire, sono partite le cariche e dei compagni sono rimasti feriti dai manganelli dei poliziotti.
Un altro teatro di questa stretta eccessivamente repressiva, davanti ai cancelli chiusi della Rai, è Torino, luogo in cui si è tenuto il secondo presidio pacifico.
Noi chiediamo una risposta della dirigenza della Rai perché riteniamo che sia assurdo che conduttori, conduttrici, dirigenti, persone che sono sicure del proprio posto e che hanno un ruolo – che non è solo un ruolo lavorativo ma è anche politico – non prendano posizione mentre accade l’inferno al di là del Mediterraneo. Questo mare è ormai un mare di morte, un’ulteriore genocidio.
Contemporaneamente a queste proteste, Hamas propone una tregua di quattro mesi e mezzo, ma Netanyahu rifiuta. Nella notte tra l’11 e il 12 febbraio l’esercito israeliano bombarda Rafah, l’unica città appartenente alla striscia di Gaza che fino a quel momento ancora non era stata invasa. Quasi tutta la popolazione palestinese era concentrata a Rafah: più di un milione di sfollati a ridosso del confine, la più alta densità di popolazione del pianeta.
Secondo il Ministero della salute di Hamas, sotto alle bombe sono morti almeno un centinaio di palestinesi. Ufficialmente l’obiettivo di Netanyahu era, da una parte, liberare due prigionieri israelo-argentini, catturati a ottobre scorso, e, dall’altra, smantellare tutte le basi militari di Hamas, compresi i quattro battaglioni di Rafah. In realtà, lo Stato di Israele mirava a qualcosa di più, cioè a invasioni e bombardamenti a tappeto. Era nell’aria che ciò sarebbe successo, nonostante diversi profili internazionali, tra cui Biden, si fossero esposti per scongiurare l’attacco aereo.
Attualmente, riporta l'Oms, nella striscia sono parzialmente operativi (a causa dei bombardamenti) 13 ospedali su 36, ed è ancor più difficile garantire i servizi di prima necessità. Le organizzazioni umanitarie parlano infatti di una “catastrofe umanitaria”.
Anche, e soprattutto, dopo questi tragici fatti, la tensione è rimasta alta dentro e fuori la Rai. Una seconda dichiarazione viene diffusa il 15 febbraio per rivendicare le parole di Ghali: “Contestiamo con forza l’unilateralità del comunicato, che ha completamente omesso la sproporzione nel conflitto, le sofferenze della popolazione di Gaza e la violenza subita sistematicamente dai palestinesi nei territori occupati nella Cisgiordania”. Così scrivono alcuni dipendenti Rai senza esporsi con nome e cognome (per evitare ripercussioni sul lavoro). Segue il testo integrale:
Nel frattempo, il mondo dei social si divide in due scuole di pensiero: da una parte c’è chi dà visibilità al dissenso dei dipendenti Rai e chiede il “cessate il fuoco”, dall’altra c’è chi pensa, come il Senatore della Lega Alessandro Morelli, che “sarebbe utile una sorta di daspo per chi utilizza il palco di Sanremo per fini diversi da quelli della musica”.
Diverse riflessioni si possono sollevare sulla funzione dell’arte in contesti politici, sulla libertà d’espressione degli artisti e dei vertici delle aziende pubbliche, sulla corresponsabilità del silenzio e sul dissenso non violento. Malgrado i manganelli, i presidi proseguono nelle principali città italiane e ricordano che non ci si dovrebbe mai stancare di invocare all’unisono la pace e la libertà di parola.
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