Tre giovani inquieti, una giornata decisiva, una pistola, Parigi. Il rapporto tra la capitale francese e le sue periferie è messo in scena nel 1995 da Mathieu Kassovitz col film "L'Odio"; nello stesso anno, Toni Negri e Jean Marie Vincent provano a darne una lettura filosofica.
Parigi, 1995.
Se Adbel muore pareggiamo i conti.
Abdel è un ragazzo di una banlieue parigina, pestato dalla polizia e in fin di vita. Vinz, Huber e Saïd sono tre giovani come lui, vengono dallo stesso quartiere, Abdel è uno di loro. Se muore deve essere vendicato. Così inizia la storia raccontata nel film Le Haine di Mathieu Kassovitz [1].
Di Vinz, Huber e Saïd ce ne sono stati, e ce ne sono ancora nelle odierne periferie parigine, nel rispetto dei tempi che cambiano, ma comunque presenti. Anche di Abdel ce ne sono molti, e di quando in quando vengono uccisi, facendo infuocare i quartieri, scombussolando la città e ricordandole che esiste una parte che odia, perché ne è sì parte, ma sempre separata.
La-Le città
Un giorno e due mondi. Una città, tante città. La storia raccontata ne Le Haine, L’Odio in italiano, ha inizio il mattino che segue una violenta nottata di scontri con la polizia. Vinz, un giovane ragazzo ebreo interpretato da Vincent Cassel, viene svegliato da Saïd, l’amico arabo che lo chiama dalla piazza. I due si recano insieme da Huber, un ragazzo africano di seconda generazione, che viene inquadrato mentre sta tirando pugni al saccone della palestra che aveva costruito. Questa però appare incendiata, irrecuperabile.
Vinz è il più rabbioso, è inquieto, il suo corpo è sempre in movimento, sembra saltellare su se stesso in una strana danza secca e scattosa.
Abdel è il ragazzo in coma, ferito qualche giorno prima, è arabo come Saïd. La sua vita appesa a un filo è lo sfondo morale dello sfondo reale, del disagio di quel grosso quartiere ai margini della città, della Parigi che i turisti non vanno a visitare. Se muore bisogna fare giustizia, la morte è la condizione, e l’unica giustizia possibile è la violenza,le altre vie di uscita sono sbarrate.
Vivono tutti in un tempo morto aspettando solo di esplodere nella rabbia, aspettando un pretesto d’accensione repentina.
La chiave di volta della storia è la pistola che Vinz mostra ai compagni, l'ha trovata la sera precedente durante gli scontri. Se ne vanta, si atteggia, sente che quell’oggetto può dargli un potere come nient’altro, in quel contesto. Non è un caso che Kassovitz proponga una scena in cui il giovane emula Travis, il protagonista diTaxi Driver. Anche Travis vuole farsi giustizia da solo, e la violenza gli appare come unica via. Vinz infrange quello scudo che sembrano usare gli abitanti delle banlieue contro la polizia e che si sente recitare all’inizio del film «non abbiamo armi, solo pietre». Anche le pietre possono essere armi ma non esistono a questo scopo, l’arma invece è progettata per uccidere, o almeno far male. Con un'arma anche un gesto di difesa ha sapore di attacco.
Vinz ancora non lo sa, ma quella pistola è un cattivo presagio.
Frame del film, Vinz emula Travis
Il momento in cui Said deve andare “in città” per farsi restituire dei soldi è il pretesto per togliersi dal quartiere, dove nei parchetti, sotto ai giochi per bambini, sono sparpagliate siringhe di chi fa uso di droga. Questa parte del film, girata a Parigi città, è una parte più veloce, piena di avventure, il ritmo paludoso di prima viene abbandonato. Il sole inizia a calare.
Subito si nota la dissonanza tra le abitudini dei ragazzi e la vita del centro, ma la loro goffaggine diventa presto sarcasmo, lo stupore per la bellezza che li circonda in un baleno si tramuta in rabbia. Non sono abituati, ma piuttosto che ammettere di non sapere cosa fare, si azzuffano tra loro. La pistola inizia ad avere un ruolo preponderante. Il culmine è la scena in cui Saïd e Huber vengono attaccati da un gruppo di neonazisti: Vinz riesce a liberarli mostrando l’arma. Tuttavia, quando “finalmente” potrebbe utilizzarla per uccidere uno di loro, al momento di sparare si tira indietro. Huber lo incita, «spara», dice, «vendica Abdel». Perché a quel punto i tre hanno scoperto che Abdel era morto. Ma Vinz non spara.
È ora di tornare a casa.
Frame del film, momento in cui i ragazzi scoprono da un notiziario la morte di Abdel
La caduta
I tre sono tornati, Abdel è morto, si salutano, dovrebbero vendicarlo, Vinz lo aveva giurato, però poi lascia la pistola a Huber. Ha capito che a sparare non ci sarebbe riuscito e così rinuncia alla sua dose di potere. In quel momento arriva una pattuglia, un poliziotto che aveva preso di mira il giovane, gli spara. Vinz muore, non era previsto. Huber punta la pistola alla tempia dell’assassino, Saïd chiude gli occhi.
«Il problema non è la caduta, ma lo schianto». Le parole di Huber dalle quali nasce il film suonano profetiche. Come un uomo che cade e che ad ogni piano che sorpassa si ripete "fino a qui tutto bene", così i ragazzi sembrano dirsi per tutto il film che anche quella volta è andata bene. Dopo ogni inseguimento, dopo ogni pestaggio,ricominciano daccapo, trovando sempre un'occasione per ridere. Ma alla fine non è andato tutto bene, non solo Abdel è morto, ma muore anche Vinz, che aveva deposto in quell’istante il suo desiderio di potere e di vendetta racchiuso nell’arma. È un finale che restituisce il senso di insensatezza che pervade certi contesti. Qualcosa va storto e boom, sei morto.
Banlieue
L’origine del termine banlieue è controversa, deriva dal latino medievale banleuca, cioè bannum leucae, “bando di una lega”, e indicava in origine il diritto amministrativo esercitato sui territori che si trovavano a una lega di distanza dalla città. A prevalere, nel tempo, è stato però il significato di ban lieu, ossia “luogo bandito”, escluso dalla cosiddetta società civile o luogo abitato da persone bandite o “banditi”.
Le banlieues attorno alle maggiori città francesi, e perciò Parigi, nascono nell’Ottocento. La società di massa imponeva una crescita del sistema di industrializzazione, e viceversa, c’era bisogno di forza lavoro per farlo funzionare. La conseguenza naturale fu dunque lo spostamento dei quartieri operai, costruiti attorno alle fabbriche fuori dal centro.
A partire da quel momento si produsse l’idea di banlieue come alterità, come parte divisa. A quel tempo vivere in banlieue significava far parte di un gruppo socialmente ed economicamente omogeneo. E, soprattutto, organizzato: i movimenti socialisti, sindacalisti e poi comunisti contribuirono a rendere le banlieue una di quelle “roccaforti rosse”, dove l’abitante trovava una propria identità nel lavoro e nello status che da quello derivava. I lavoratori, organizzandosi, si contrapponevano alla borghesia, erano l’alterità ai margini della città, ma ancora dentro di essa.
L’identificazione sociopolitica delle banlieues durerà fino agli anni '80 entrando in una crisi irreversibile quando le grandi ideologie si sgretolano, il sistema economico cambia.
Nel 1995, proprio rispetto a tale fenomeno, Toni Negri e Jean-Marie Vincent scrivono un saggio che si proponeva di analizzare le banlieue nel loro rapporto con la città dal punto di vita filosofico[2].
Il dato di fondo è la connessione che ritengono esistere tra la modificazione del sistema produttivo-economico, conseguente crisi del modello industriale e la perdita di identità delle banlieue. Le periferie erano ormai considerate dall’opinione comune come «ghetti», luoghi banditi, dove non bisogna andare, e luoghi di banditi. È la città stessa, a metà degli anni Novanta, ad essere in crisi, subendo un cambiamento sostanziale dovuto alla «riorganizzazione capitalistica del territorio» (come già notava Henri Lefebvre un paio di decenni prima). Tale riorganizzazione, che teneva conto delle nuove esigenze del sistema capitalista, legato sempre più all'apparato tecnologico, ha finito per determinare una crisi del territorio stesso [3].
I vecchi quartieri periferici di operai e lavoratori, tenuti insieme dalle logiche politiche di riconoscimento e identificazione, divengono «sacche di miserie profonda», poiché in esse, dopo la fine del colonialismo francese, si stratificano generazioni di immigrati da varie latitudini e grandi numeri di disoccupati.Le fabbriche hanno cessano la loro funzione di produttrici del proletariato, il lavoro si è fluidifica e diminusice. La fabbrica non è più il simbolo del modello di sviluppo, e perciò perde gradualmente di significato l’idea di proletariato. Le banlieue divengono il luogo del non-lavoratore, della disoccupazione, spesso transgenerazionale. Transgenerazionale come l'odio.
Creando un parallelismo con il film, Vinz, Huber e Saïd sono il prodotto di questo contesto, ormai non tenuto insieme da nessuna ideologia e nessuna speranza di futuro. Sono essi stessi disoccupati e vagano senza meta, non studiano nemmeno, stanno, in attesa di reagire.
L'odio
L’odio che i giovani provano a quell’epoca, scoppiando in rivolte violente, non ha niente a che fare con la lotta di classe che aveva caratterizzato le generazioni precedenti.
Questo perché alle spalle dei giovani che protestano contro la polizia, spesso per l’uccisione di un loro compagno, non c’è più un sistema, un’ideologia in grado di fondare una soggettività, né alcuna speranza di futuro. Specularmente, se prima il contraltare del proletariato era la borghesia, ossia se prima esisteva l’ “altro” verso il quale agire e pensare in contrapposizione, questo "altro" per i nuovi giovani abitanti delle banlieue è tutto, è la polizia, la città che sta bene, il mondo che li ha voluti sfortunati, tutto, perciò niente. Una caratteristica dell’odio è quella di essere un sentimento edificante anche per chi lo prova, nel senso che lo identifica, ne crea l’identità, come diverso rispetto all’oggetto odiato. Ma questi giovani chi sono, se non la parte infelice della città, immigrati o figli di immigrati che non sentono di aver trovato il loro posto, disoccupati frustrati, gente picchiata dalla polizia che non si esime dalla violenza più tremenda?
L’odio che provano è generalizzato, disorganizzato, perciò debole. Negri scrive appunto, che «per i giovani la società attuale è segnata da disuguaglianze sociali di fondo, ma il suo sviluppo non sembra né chiaro, né leggibile». E ancora «La disoccupazione minaccia i giovani, […] i giovani disoccupati faticano a definire quale siano gli avversari da combattere e a definire i principi di azione». In altre parole, i giovani che sentono di subire ingiustizia, di essere nati nella parte sbagliata della città, non agiscono in seno ad un pensiero politico che li guida, hanno anzi perso fiducia nella politica e sostanzialmente subiscono la realtà in modo passivo [4].
L’unico piano d’azione è unirsi in bande, e sebbene lo scritto di Negri e il film di Kassovitz risalgano almeno a trent’anni fa, mostrano i germogli di ciò che ancora oggi è osservabile. Si legge: «le bande costituiscono di fatto dei luoghi di rifugio con i quali i giovani tentano di darsi gli strumenti per far fronte a un mondo ritenuto ostile» [5].
La politica nelle banlieues, come dovunque del resto, non è più il collante sociale, lo strumento con cui cambiare le cose e l’odio, alla fine, non produce niente, se non una spirale di violenza, seppure spesso nasca a causa della violenza.
Nel tempo sono falliti molti piani di riqualificazione. Parigi appare come una città che viaggia «a due velocità», riflesso di una «società a due velocità». Essa «si presenta attraverso la coabitazione della città e dei ghetti […] In questo orizzonte i problemi dell’esclusione diventano spesso quelli della povertà e/o quelli della repressione poliziesca, ogni qualvolta compare la resistenza».
E così, aggiunge Negri, «è alle frontiere dell’esclusione, soprattutto lì dove la repressione è più forte, che l’esclusione diventa illegale e il comportamento diventa criminale».
Nell'estate 2023 è morto, ucciso, un altro Abdel, si chiamava Nahel, un nome quasi assonante. Aveva 17 anni, abitava in una banlieue di Parigi. L’Odio compie quasi 30 anni, in trent’anni l’odio nelle banlieues è rimasto uguale, senza soluzione, nell’attesa che una soluzione si trovi.
Protesta a Parigi dopo l'uccisione di Nahel.Credits: Fanpage.it
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