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Senso di colpa: prospettive contemporanee

Il senso di colpa è un pattern ricorrente nella narrazione dello spirito del tempo contemporaneo, ma come ne parlano i suoi rappresentanti?

Nella società dell'apparenza è possibile sfuggire al confronto? Assolutamente no, e fin qui niente di nuovo. Ma questa, seppur inconscia e più o meno pesante competizione con il resto del mondo, che effetto provoca?
Oggi è sempre più comune che la condivisione e il racconto di sé occupino una parte predominante della quotidianità, sia per chi ne fa uso privato e amatoriale, sia per chi ha sviluppato un business su questa tendenza al voyeurismo.

Condividere pubblicamente le proprie vacanze, le serate, i momenti di quotidianità, da ciò che si acquista quando si fa la spesa a ciò che si riceve come omaggio da parte di un brand famoso: tutto ciò può essere ricondotto a un grande calderone in continua ebollizione, un recipiente senza fondo che si riempie costantemente di cose e fatti che le persone gettano al suo interno, nella maggior parte dei casi senza curarsi dell'effetto che questo accumulo può provocare.
Il risultato è quello di una vetrina in costante allestimento che a vari gradi esplicita tutti gli aspetti della vita quotidiana.

Si tratta di qualcosa di diabolico e irreversibile la cui esistenza ha contaminato per sempre l'Eden della famosa epoca in cui "senza i social stavamo meglio"?
No, non necessariamente. Considerando che alla base di ogni azione degna di essere definita umana vi si dovrebbe riscontrare razionalità e pensiero, ci si può prospettare che l'utilizzo dei social network, come di qualunque altro mezzo/dispositivo/strumento, sia una pratica come un'altra, collocata in un contesto X di un'epoca Y. Probabilmente anche la ruota agli albori della sua esistenza è stata demonizzata, ma dove saremmo oggi senza?

Eppure c'è qualcosa che rimane incastrato tra le pieghe degli eventi e che richiama l'attenzione dello spirito del tempo, un tempo, quello contemporaneo, caratterizzato sempre di più da fatti che dimostrano quanto siano centrali gli effetti provocati dal confronto, dalla competizione, dal paragonarsi a qualcuno o qualcosa che talvolta neanche esiste.
Questi effetti possono essere in buona parte raggruppati sotto il termine cappello di senso di colpa: un sassolino che cade proprio al centro della cassa toracica e si deposita sul fondo dello stomaco, che può ingrandirsi fino a diventare un macigno da portare con sé, anche quando inizialmente la sua presenza riesce quasi a passare inosservata.

Soprattutto per i giovani, il senso di colpa è un argomento rilevante verso cui i social network svolgono un doppio ruolo: se da un lato ne sono una cassa di risonanza, una fonte di continui paragoni che elargisce standard e aspettative spesso irrealistici, al contempo essi sono anche mezzi di comunicazione e strumenti con cui propagandare la prospettiva opposta.
Sempre più content creator e influencer sfruttano i propri spazi digitali per diffondere il messaggio che la maggior parte di quello che nelle vetrine appare splendente, solido e consistente spesso è ben lontano dall'esserlo nella realtà.
Si stanno diffondendo sempre più video e contenuti in cui i protagonisti, mentre svolgono attività quotidiane, condividono in voice over i propri pensieri. Attraverso queste narrazioni, normalizzano i fallimenti, le giornate difficili e quei momenti in cui, per stanchezza o altre ragioni, non ce la si fa e si allenta la presa.

Un esempio di questo tipo di contenuti è quello della content creator Emma Galeotti, che recentemente ha condotto il programma "Ti lovvo" di Raiplay. Ironica e tagliente, Emma inserisce spesso nei suoi contenuti il tema della salute mentale e della relazione con se stessi, dalle difficoltà legate alla crescita all'accettazione personale.

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Negli ultimi mesi ha pubblicato sulla piattaforma YouTube tre video dedicati proprio a questi argomenti: uno per quando si è tristi, uno per quando non si riesce a fare niente e uno per quando si ha bisogno di sentirsi meglio.

Emma entra nel pieno della questione: proprio il primo video, "Un video per quando sei triste", si apre con la tematizzazione della sindrome dell'impostore, definita come "una specifica condizione psicologica legata a una bassa autostima per cui la persona dubita delle proprie competenze e non riesce a riconoscere i propri meriti. Spesso i successi personali vengono attribuiti in maniera totalizzante a fattori esterni come la fortuna." [1] "La verità è che io non ho mai fatto un video del genere per un semplice motivo [...] La grassa grossa sindrome dell'impostore, che mi appartiene. Ovvero: io non posso fare questi video perchè li hanno già fatti tutti."

Così esordisce la creator nel video: la naturale conclusione del pensiero di Emma è che lei non si sente legittimata a fare questo tipo di video perchè lo hanno già fatto tutti e implicitamente intende che lo hanno fatto meglio di lei; dunque, visto che lei non si reputa all'altezza di replicare questo contenuto con altrettanta qualità, si priva della possibilità di provarci.
Il video prosegue con Emma stessa che decostruisce questo ragionamento: il fatto che qualcuno nel corso della storia dell'umanità abbia già prodotto, realizzato, costruito qualcosa, non impedisce a qualcun altro di provarci perchè ci sarà sempre una diversa sfumatura, inclinazione, dettaglio che rende perfettamente originale il lavoro di ciascuno.

Sempre in questo primo video, Emma mette in luce un altro aspetto importante del senso di colpa: il peso emotivo, ma anche fisico che esso provoca.
Il peso delle aspettative che trattiene dal mettersi in gioco e quantomeno provare a cimentarsi in una determinata attività deriva sicuramente da una fonte emotiva, da pensieri e background che hanno a che fare con la sfera emozionale, ma le sue ripercussioni si manifestano anche dal punto di vista fisico.
Quante volte capita di sentirsi talmente abbattuti e appunto, appesantiti, dalle incombenze, da restare bloccati in uno stato di sopraffazione che può manifestarsi anche con veri e propri arresti fisici. Il voler fare qualcosa si scontra con la paura di non farcela e da questo pericoloso connubio deriva l'agitazione, che si può definire più precisamente ansia da prestazione. Questa getta mente e corpo nel caos degli eventi, procurando il blocco che manda in avaria il sistema.

Sentirsi inadeguato nel proprio ruolo_ la sindrome dell'impostore - Psicoadvisor.jpeg

Lo scenario è complesso, ma ci sono dei piccoli accorgimenti che possono aiutare a sbloccare la situazione; come indica anche Emma, in quei momenti è importante ricordare di fare qualcosa per se stessi:"Fai una cosa per te. Una anche che sia la più banale tipo mettersi la crema in faccia."
Nessuno ha la pretesa di garantire che mettere la crema, bere acqua, assumere vitamina C o fare una passeggiata al parco siano una soluzione definitiva e rassicurante, ma sono comunque piccoli step che possono contribuire a costruire un percorso di autoconsapevolezza verso la propria persona, a partire dal corpo.

Il secondo video, "Un video per quando non riesci a fare niente", inizia riprendendo le fila del discorso proprio a partire dal senso di pesantezza e di arresto.
"La cosa più difficile di tutte è iniziare. Infatti non avevo idea di come iniziare questo video. L'ho fatto e basta. Se ci penso ancora un secondo, non lo farò mai più."
Per quanto possa sembrare scontato e banale, uscire dall'impasse è possibile proprio grazie all'azione stessa. Il senso di colpa trattiene dal compimento dell'azione perchè troneggia al centro della mente sbeffeggiando l'entusiasmo a suon di "tanto non ce la fai, non provarci neanche."

Per superare questo ostacolo, Emma come tante altre persone, decide di tapparsi le orecchie, non ascoltare il senso di colpa e buttarsi nel vuoto che pare infinito, ma che tante volte non è più profondo di una o due spanne. Fare le cose "significa imbattersi nella possibilità di fallire. Ed è il mio più grande terrore." Ma il punto è proprio questo: "fallire rispetto a cosa? Non succede niente se sbaglio qualcosa."

Per spiegare ulteriormente questo ragionamento, Emma fa riferimento al paradosso del gatto di Schrödiger: un gatto viene messo in una scatola caratterizzata da un meccanismo a rilascio che può diffondere un gas velenoso. Il gatto non può interferire con questo meccanismo e "visto che è impossibile sapere, prima di aprire la scatola se il gas sia stato rilasciato o meno, fintanto che la scatola rimane chiusa il gatto si trova in uno stato indeterminato: sia vivo sia morto." [2] La situazione si risolve solo attraverso l'azione: aprendo la scatola si può constatare se il gatto sia vivo o morto, fino ad allora non si può che vivere nel dubbio.

Proprio a partire da questo immobilismo, dalla scelta di non scegliere, si apre un'ulteriore prospettiva: se da un lato il senso di colpa si lega alla paura del fallimento, dall'altro si lega alla paura del successo. Quante volte ci si trova a un passo dal proprio obiettivo, magari dopo un percorso lungo e tortuoso, e a pochi metri dal traguardo si mette in discussione tutto il tragitto, tirandosi indietro senza portare a compimento il processo.

Ecco che dopo la sindrome dell'impostore, si presenta l'autosabotaggio. In psicologia, per autosabotaggio si intende "un costrutto comportamentale volto a non farci raggiungere i nostri obiettivi, in modo da potersi sottrarre allo sforzo o giustificare il fallimento." [3]
Quel blocco non è solo la paura di cadere nel vuoto e schiantarsi su scogli appuntiti. Spesso è anche paura di riuscire effettivamente a spiccare il volo e sostenere il ritmo del volteggio, per evitare di schiantarsi chissà quanti metri più avanti. Il timore del successo è legato a una premessa di infallibilità che non deve e non può essere tradita, pena la perdita di valore di tutto ciò che è stato conseguito fino a quel momento.

Infine, il terzo video di Emma, "Un video per quando hai bisogno di sentirti meglio" apre la prospettiva su un ulteriore elemento legato al senso di colpa che, come si diceva in partenza, oggi forse è ancora più presente proprio per via dell'eco mediatica favorita dai social. Il tema è quello della necessarietà della felicità: "come se essere felici fosse un nostro dovere e raggiungere la felicità sia un nostro compito. E qualora non siamo felici, abbiamo fallito."

Come accade quando si è di fronte al salto nel vuoto che potrebbe risolversi in uno schianto rovinoso come in un leggiardo volo o semplicemente in un saltino, anche di fronte alla felicità il senso di colpa non tace, e pian piano sussurra all'orecchio che se non riesci a essere felice come loro (loro chi, poi?) è perchè in realtà non ti stai impegnando abbastanza.
Questo meccanismo scatta nel momento in cui si permette alla felicità, intesa come condizione permanente e inattaccabile, di diventare un obiettivo da raggiungere attraverso successi riportati in task quotidiane, professionali, personali. Si tratta però di un obiettivo abbastanza pretenzioso. Si potrebbe correggere il tiro in termini un po' più realistici e pensare alla felicità come un percorso e non come un traguardo, il cui primo step è riconoscere e accettare.

"Per una serie di fattori che possono essere genetici, ambientali, sociali, psicologici, la maggior parte dei giorni, mi sveglio e vado a dormire in uno stato di non contentezza. E mi sento come se questo dovesse essere un problema."
Così commenta Emma la sua situazione, e subito spiega che la presa di coscienza e l'accettazione non consistono tanto nel farsene una ragione, quanto più nel cambiare la mentalità per cui questi stati emotivi sono considerati qualcosa da nascondere perchè sbagliato e vergognoso.

Il video si conclude in termini propositivi, che è proprio ciò di cui si ha bisogno per sentirsi meglio, come nelle migliori chiacchierate tra amici.

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La tematizzazione di questi argomenti eseguita per mano di giovani personalità di spicco sul web è fondamentale perchè sono le voci più credibili a cui far riferimento per sensibilizzare su un tema che interessa così tanto i giovani.
Senza la pretesa di porre rimedio alla domanda che ha interessato fior di filosofi per secoli, è sano e incoraggiante vedere e sentire sempre di più la volontà di normalizzare ciò che rappresenta un problema sociale e generazionale.
Del resto, come ha trionfalmente fatto notare Lucio Corsi a Sanremo 2025:"Io volevo essere un duro / Però non sono nessuno / Non sono altro che Lucio" e va benissimo così.


  1. Irina Bogani, "La sindrome dell'impostore: quando un bugiardo fa carriera", Unobravo, 20/12/2023. ↩︎

  2. Focus, "Come sta il gatto di Schrödiger?", 21/03/12. ↩︎

  3. Redazione Serenis, Cos'è l'autosabotaggio: quali sono i segnali e le soluzioni, 17/02/25. ↩︎