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Settico

In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, Federica Aileen Mangano condivide un testo nato all'interno del percorso teatrale "Respiro Comune" con Luigi Albert.

Settico

di Federica Aileen Mangano

Siamo una marea di corpi che si stringono e si cercano.
Indosso la gonna di jeans, con i collant neri che mi pizzicano sulle cosce e la felpa nera che ho rubato a mia sorella. Riempiamo ogni centimetro di questa piazza dalla forma strana.
Dal furgone del collettivo arriva la musica: ci muoviamo piano. Una mano solleva un megafono, sono i primi slogan.
Beatrice mi dice di seguirla. Avvicino la mia mano alla sua, me la stringe.
Iniziamo a danzare. Ci seguono anche gli altri: Martina salta sulle spalle di Nicola e i piedi si agganciano alla sua schiena. Zoe spinge Mirco verso di noi, che è rimasto indietro. Paola, che cammina qualche metro avanti, si volta appena. Ci sorride. Ridiamo per il dente che le manca e per la sua ostinazione nel continuare a raccontarci come l’ha perso “quella volta a Roma”. Ci raggiunge anche lei.
Più in là, Alice tira Simone fino all’inizio del corteo e gli passa un angolo dello striscione che abbiamo dipinto con le bombolette spray - né vittime né imputate ma indecorose e libere - con gli accenti un po’ storti ‘che sono difficili da disegnare senza un pennarello. Le spalle si toccano l'una con l’altra, siamo così stretti che non capisco se il sudore che sento sia il mio.

Ci fermiamo. Martina prende il megafono. La polizia si avvicina.

“Basta guerre sui nostri corpi.”

La lotta contro il patriarcato è la nostra lotta, così come la lotta contro il razzismo istituzionale.”

“È una lotta intersezionale, non deve rimanere fuori nessuno e nessuna!”

Ora un grido collettivo riempie la piazza: insieme siamo partite e insieme torneremo, non una, non una, non una di meno!

Agitiamo le chiavi in aria. Un tintinnio si infila nei vicoli e risuona per la città. Non si sente nessun altro rumore finché un sampietrino rimbalza sul casco di un celerino. Dall’alto vedo arrivare una bottiglia che sbatte su uno scudo e si sgretola. Urliamo. L’asfalto di via del Santo si riempie di cocci. Per evitarli ci calpestiamo. Due ragazzi armati corrono in direzione dei manganelli. Esplode una bomba carta, ci divide in due lati della strada. Mi spintonano da una parte all’altra, c’è fumo, non vi riconosco. Dove cazzo siete finiti? L’odore di lacrimogeni mi stringe le narici. Mi tiro su la felpa dal mento. Qualcosa mi colpisce la spalla sinistra e le ginocchia sfregano sulla ghiaia. Mi tocco il destro con la mano sporca di terra: sanguina. Mi alzo, vi cerco e urlo ancora più forte: “Mi sentite?”, stringo gli occhi e copro le orecchie con le mani.

Il monitor delle funzioni vitali disegna il perimetro delle montagne. È lo stesso suono che ha portato via mia madre.
Non mi puoi vedere. Sei distesa su un letto bianco, in mezzo a pareti bianche. Asettiche. Sbucano solo i tuoi piedi. Bianchi. Immobili. Mi senti? La flebo ti soffoca una vena. Ti hanno infilato un tubo in mezzo alla gola. In testa hai una parte dove i capelli non crescono più. È lo shock. Le tue dita sono bianche. Lo smalto te l’hanno tolto, ma ne è rimasta solo una traccia sottile. È rosso, l’unico che usi, se non decidi di provare a metterti quello blu.
“Mamma, me lo metti tu lo smalto? Che con la mano sinistra non me lo so mettere.” Dov’è finita la fede? Te l’ha tolta l’infermiera Hitler, sicuro. Quel tubo in mezzo alla gola ti impedisce di parlare, ma le palpebre si alzano piano. Le mani tremano nel tentativo di raggiungere la penna.
Impari a scrivere di nuovo da un pezzo di carta: salone da ballo, scrivi.
“C’è stata una festa qui?” ti chiedo. Aggiungi, scrivendo male: principe arabo.
È la morfina, mamma, non c’è nulla qui, sei in ospedale, è solo il tuo vicino di letto che ha la pelle olivastra.” Lasci il foglio sulle lenzuola bianche e ti cade la penna. Mentre la raccolgo il polpastrello si avvicina alla coscia.
Sfreghi le dita sulla carne nuda: emme.
Mamma? Mamma, cerchi la nonna?
Emme-e. Me. Cerchi te stessa?
Emme-e-erre. Mer. Aspetto quasi fosse il gioco dell’impiccato.
Emme-e-erre-di-a. Merda. Sei arrabbiata? Ti chiedo. Scuoti la testa con un movimento che quasi non percepisco.
Devi fare la cacca? La cacca?
Sì, mamma, ti chiamo l’infermiera Hitler.