Nel suo iconico costume da astronauta, l’attivista ambientale ci guida nei suoi viaggi nel futuro, un futuro che in realtà è già qui, tra noi. Attraverso le sue "Transition towns" Hopkins ci mostra come il cambiamento sia possibile, basta solo iniziare a immaginarlo.
"Sono stato nel futuro, abbiamo vinto". Rob Hopkins, attivista e scrittore inglese specializzato in temi ambientali, ripete spesso questo motto pieno di speranza, uno slogan che incarna perfettamente il suo approccio ottimistico alla divulgazione. In occasione del "Laboratorio di Futuro", tenutosi presso la Fondazione Barberini lo scorso 28 settembre 2024, Hopkins ci invita a smettere di pensare al futuro come un deserto di distese aride e foreste in fiamme.
Al contrario, ci sfida a immaginare un 2030 né utopico né catastrofico, ma realistico e pieno di possibilità, senza temere di apparire addirittura assurdi perché “qualunque idea utile che riguardi il futuro dovrebbe inizialmente sembrare ridicola” (Jim Dator)[1].
Il suo esercizio di apertura è semplice ma potente: "Chiudete gli occhi e mettete i piedi ben saldi a terra. Immaginate che il tempo scorra come vento sul viso. Ora siete nel 2030. Usate la vostra immaginazione per esplorare una nuova Bologna: ascoltate i suoni, sentite gli odori, guardatevi intorno. Cosa vedete?". Le risposte dei partecipanti sono unanimi e delineano uno scenario affascinante: una città verde, senza traffico, piena di biciclette, un luogo pulito, dove i vicini collaborano e nessuno inquina.
È vero, il 2030 è a soli sei anni di distanza e probabilmente non sarà possibile rivoluzionare tutto, ma è proprio da un semplice "immagina se..." che nascono i cambiamenti. Immagina se… Il primo giorno di scuola ogni bambino si presentasse con la sua gallina in braccio e del terriccio nello zaino, se le palestre dessero energia alla città, se a scuola ci fosse l’ora di immaginazione.
La stessa Bell Hooks,[2] scrittrice e attivista afroamericana, ha detto: “ciò che non possiamo immaginare, non possiamo fare”, e allora Hopkins ci accompagna in un viaggio con destinazione Bologna 2030, dove l’immaginazione non ha freni: l’ora di punta non ha più l’odore dello smog ma è invece una distesa di biciclette, i parcheggi non sono più dedicati alle auto ma si convertono in aree di socialità e svago, l’asfalto si ritira con opere di depaving[3] così da lasciare spazio alla terra sottostante, le case diventano più “morbide” perché si accantona il cemento e cominciano ad essere utilizzati materiali come argilla e funghi[4].
Ma attenzione, il cambiamento dell’ambiente circostante si riflette anche nei cittadini stessi: ad esempio, nuove aspirazioni professionali sostituiscono quelle tradizionali e così i bambini sognano un giorno di diventare deimpermeabilizzatori, ranger della biodiversità urbana, coltivatori di funghi, attivisti dell’immaginazione.
La cosa straordinaria è che non si tratta di pura fantasia: ogni soluzione immaginata esiste già in qualche parte del mondo. “Il futuro è qui, solo che non è distribuito in modo equo”, (William Gibson[5]), così Hopkins sottolinea come sia necessario far crescere e diffondere una “educazione al desiderio”, in modo tale che le comunità riconoscano l’importanza del ‘what if’, ma rivolgano anche lo sguardo al ‘what’s next’, ovvero quale sia il prossimo passo verso la concretizzazione di questo anelato futuro.
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