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#4 Utopie e distopie: The Road attraverso Lopušanskij: le dominanti dell'apocalisse

Il film "The Road" presenta delle scelte cromatiche che lo avvicinano ad altri film distopici: ne ho scelto uno, "Dead Man's Letters" di Konstantin Lopušankij, per iniziare un confronto estetico e tematico.

Il romanzo di Cormac McCarthy The Road ha avuto il suo adattamento cinematografico tre anni dopo la sua pubblicazione nel 2006. Il film, dall’omonimo titolo, è stato diretto da John Hillcoat, noto soprattutto per la realizzazione di video musicali in ambito post-punk.

La caratteristica che rimane impressa nella memoria è l’aspetto cromatico delle scene: il film presenta delle dominanti di colore che vanno dal seppia-giallo al grigio e che vengono utilizzate spesso per distinguere, rispettivamente, gli interni dall’ambiente esterno. A questa suddivisione si aggiunge poi la scelta di rappresentare i ricordi del padre in The Road come le uniche scene che hanno un bilanciamento del bianco (e quindi dei colori) naturale.

I film di fantascienza presentano spesso una caratterizzazione cromatica peculiare, che contribuisce a creare un’atmosfera percepita come altra e surreale, basti pensare alle tonalità fredde di Blade Runner (1982) o all’iconica palette di 2001: Odissea nello spazio (1968). In particolare, sono i film a tema distopico o post-apocalittico a servirsi spesso del bianco e nero o del seppiato per trasmettere sensazioni di desolazione e angoscia: l’esempio che viene in mente dopo aver visto The Road è, sicuramente, Io sono leggenda (2007), ma va precisato che in quel caso le dominanti sono meno marcate. Ho subito pensato che sarebbe stato interessante confrontare le scelte di fotografia in The Road con quelle di un maestro delle atmosfere sospese come Andrej Tarkovskij. Tuttavia, mi sono posta il problema di mantenere una coerenza tematica, per cui mi sono concentrata inizialmente su Stalker (1979) per il suo carattere distopico e l’ispirazione derivata, come nel caso di The Road, da un romanzo di fantascienza ovvero Picnic sul ciglio della strada (1972) dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij. A questo punto, però, ho preferito dare spazio a un regista meno noto di Tarkovskij che è stato suo assistente alla regia proprio in Stalker, e al suo film di debutto che ha goduto della collaborazione diretta di Boris Strugackij per la sceneggiatura: sto parlando di Konstantin Lopušanskij e di Dead Man’s Letters del 1986.

In questo articolo proverò a guardare The Road attraverso lo sguardo di Lopušanskij, passando via via dal commento delle caratteristiche della fotografia alle riflessioni riguardanti il tema della distopia.

I. I colori degli interni

The Road (2009) , 00:11:30
Dead Man's Letters (1986), 00:15:44

Le distinzioni cromatiche che ho esplicitato precedentemente si trovano anche in Dead Man’s Letters dato che gli interni hanno una forte tonalità gialla e gli esterni sono prevalentemente caratterizzati da una scala di grigi.

Nel caso di The Road siamo di fronte alle stanze della casa dei protagonisti a seguito di una non precisata catastrofe: la madre, il padre e il bambino si trovano a dover decidere come sopravvivere data la mancanza di cibo e il rischio di essere uccisi dagli altri uomini. La casa assume dei colori naturali solo nei ricordi del padre che ripercorre un altro passato, quello felice, precedente alla nascita del figlio, mentre i paesaggi grigi occupano l’intero orizzonte del presente di padre e figlio costretti a vagare per sfamarsi e ripararsi.

La storia in Dead Man’s Letters è diversa. Davanti a noi si consuma la tragedia spirituale del Professore, un eminente studioso di fisica, che vive in un sotterraneo con la moglie in fin di vita e gli altri sopravvissuti alla catastrofe nucleare. L’uomo passa le sue giornate a pensare e a scrivere delle lettere al suo figlio disperso Eric, rimasto nel mondo esterno e probabilmente morto durante i bombardamenti. Non abbiamo immagini colorate del suo passato, ma anche in questo caso le rare incursioni nell’ambiente esterno devastato dalla guerra sono accompagnate da una tinta grigia e desolante.

È interessante notare come, in un contesto distopico, i colori “naturali” e non alterati vengano attribuiti solo a una visione sopra la realtà, legata alla memoria o all’immaginazione: oltre al caso dei ricordi in The Road, vale la pena ricordare l’esempio de Il cielo sopra Berlino (1987) e, per tornare a Stalker, il fatto che i colori caratterizzino solo la visione nei pressi o all’interno della Zona, che promette di realizzare tutti i desideri degli umani. C'è poi una piccola curiosità da aggiungere: Alexander Sokurov, il maestro di Arca russa (2002), ha scelto la stessa alternanza di dominanti per trasporre ancora una volta una sceneggiatura dei fratelli Strugackij, nel suggestivo Days of Eclipse (1988).


II. I movimenti all'esterno

The Road (2009), 00:27:19
Dead Man's Letters (1986), 01:16:25

Il film di The Road presenta frequentemente delle inquadrature di vaste porzioni grigie di wasteland, in cui prevalgono la devastazione e la fragilità di padre e figlio, visti come piccole figure, spesso dall’alto o da lontano, che non si trovano mai al centro del paesaggio che attraversano. In questo modo, lo spettatore ha la sensazione che la natura prevalga sugli esseri umani sopravvissuti e che si sia rotto l’ordine in cui le proporzioni dell’ambiente e dell’uomo erano bilanciate: ora gli umani sono gettati in una condizione di estrema inospitabilità e la terra spaventa in quanto disumana.

In termini heideggeriani si potrebbe dire che padre e figlio hanno perso il loro essere-nel-mondo. Non hanno più un posto né un legame con la società che dia senso alla loro esistenza, sono costretti a vagare per assicurarsi una sopravvivenza meramente biologica sacrificando, in apparenza, qualsiasi aspirazione spirituale.

In realtà un discorso (morale) sull’anima è presente anche in condizioni estreme come queste, seppur nello stile asciutto ed essenziale che caratterizza il film e il romanzo. Il padre, infatti, ricorda più volte al figlio che loro sono ancora i good guys in un mondo di bad guys (si può riflettere sul fatto che il primo motivo di discrimine tra queste due categorie elementari sia il cannibalismo - chissà cosa direbbe Montaigne) e che è necessario che loro continuino a “portare avanti la fiamma”. Non è ben chiaro all’inizio se si intenda la fiamma in senso fisico di focolare o la fiamma dell’umanità contro la barbarie, ambiguità probabilmente voluta per sottolineare come qualsiasi pensiero dell’uomo post-apocalittico sia legato sempre alle necessità materiali.


Nel film di Lopušanskij la situazione presenta delle analogie solo se prendiamo in considerazione la perdita di centralità dell’umano nell’ambiente post-apocalittico. In realtà, l’“uomo morto” mantiene l’unicità del suo punto di vista nella tragedia. Non ci sono mai delle ampie inquadrature dall’alto, la visuale è sempre “ad altezza d’uomo” (ho riportato qui un frame della scena in cui, per esempio, viene prima mostrato un paesaggio urbano devastato da un bombardamento, seguito da un primo piano del viso del Professore coperto da una maschera antigas e infine uno zoom sui suoi occhi). Bisogna anche aggiungere che, al contrario di The Road, le scene più frequenti sono quelle gialle degli interni sotterranei e che, anche per questo motivo, c’è una maggiore attenzione alle vicende dei loro abitanti.

Questa differenza può trovare una giustificazione anche nel tipo di movimento che caratterizza i due film. In The Road, coerentemente con la tradizione culturale che sta alla base di romanzi che portano questo stesso titolo o uno simile (tra tutti, sto pensando soprattutto alle opere di Kerouac e London), i movimenti sono sempre su ampia scala, riguardano interi Stati e spesso vengono descritti in maniera generica: spesso nel film il padre ripete che è importante “andare verso Sud”, che le cose accadono “una volta raggiunta la costa” (un po’ come in una versione da incubo di Kerouac) ed è emblematica la scena in cui il dito dell’uomo percorre una cartina geografica per mostrare al figlio che hanno fatto molta più strada di quanto pensassero.


In Dead Man’s Letters e in Stalker accade l’esatto opposto: nel primo caso gli uomini sono costretti a stare fermi, in uno spazio molto ristretto, e raramente raggiungono la superficie (un movimento corto e verticale più che lungo e orizzontale). In Stalker c’è uno spostamento orizzontale, ma è incredibilmente lento e difficoltoso, non tanto perché ci siano delle reali minacce che lo impediscono (come in The Road) ma per gli ostacoli che l’immaginario dei tre uomini che vanno verso la Zona pone sul loro cammino. La scena che potremmo recuperare a tal proposito è quella, carica di significato, della draisina che per cinque lunghi minuti percorre i binari, accompagnata dalle inquadrature alternate delle nuche degli uomini (come se lo sguardo del regista volesse farci entrare nei loro pensieri di nascosto) e dal rumore delle ruote impreziosito dal sintetizzatore.


III. Il sottosuolo e l'umanità

The Road (2009), 00:55:13
Dead Man's Letters (1986), 00:23:45

Sia in Dead Man’s Letters sia in The Road è presente un sottosuolo. Nel primo caso si tratta dell’ultimo riparo dalle risorse limitate che hanno i sopravvissuti, nel secondo può essere un bunker pieno di cibo che assicura ai due protagonisti qualche giorno di serenità oppure la cantina di una casa in cui i bad guys tengono una scorta di uomini e donne destinati ad essere mangiati.

In entrambi i casi nel sottosuolo viene messa in discussione l’umanità. A mio parere, la scena più bella di Dead Man’s Letters è quella in cui i sopravvissuti, raccolti intorno a un tavolo, decidono di scrivere una lettera all’umanità che verrà presentandosi come “gli uomini morti” (da cui il titolo del film) non tanto perché destinati individualmente a morire ma più in quanto fautori del suicidio dell’umanità che ha sempre perseguito il progresso. Nel film di Lopušanskij non c’è nessun tipo di egoismo, che invece è il grande tema del film di Hillcoat. Anche quando il Professore chiede insistentemente a un ufficiale di avere notizie di suo figlio (è la scena più “egoista”) la sua voce si confonde con quelle di una decina di padri e madri che stanno chiedendo lo stesso dei propri cari. In questo film gli esseri umani non sono mai nemici tra loro: tutti collaborano per sopravvivere e condividono la consapevolezza di aver contribuito a una crescita scellerata della società. Più che l’omicidio, il rischio è quello del suicidio: eventualità coerente, dato che la fine del mondo viene vista come il suicidio di tutti e di sè.


The Road non ha questo grado di collaborazione. Anche quando padre e figlio scoprono il bunker e improvvisano una preghiera per ringraziare chi ha lasciato loro la riserva di cibo, si rivolgono alle “persone”, ovvero a nessuno in particolare. I legami sociali sono saltati, l’unica gratitudine si può esprimere in termini religiosi e astratti.

Anche quando incontrano l’anziano cieco, il primo istinto è quello di lasciarlo indietro e di proseguire per la strada. Il finale del film vuole dirci che la scelta timidamente altruistica del figlio è quella maggiormente adattiva in un contesto del genere. Mentre il padre sospettava di tutti, la speranza del figlio di trovare good guys come lui verrà ricompensata. Ma anche questo finale felice è, in realtà, decisamente provvisorio: non sappiamo se il fatto di essere in un gruppo più numeroso di persone possa favorire la sopravvivenza di tutti in tempi di carestia, non abbiamo la certezza che il bambino e gli altri non diventeranno dei cannibali in futuro. Il motivo della fragilità della soluzione altruistica, in questo film ma anche in generale, è che se non è supportata da una comunità reale è destinata ad essere una vana reazione all’egoismo che continuerà a vincere.

L’altra opzione è il suicidio: sempre presente come inquietante lezione del padre al figlio, e sotto l’incessante interesse della macchina da presa per la pistola, è comunque molto lontano dall’essere il suicidio degli “uomini morti”. In Dead Man’s Letters questa scelta afferma l’accettazione del fallimento di tutti e non porta a nessuna conseguenza materialmente negativa per gli altri; al contrario in The Road il suicidio afferma il fallimento personale e può portare a gravi conseguenze sul piano della sopravvivenza dei pochi che dipendono ancora l’uno dall’altro.

L’elemento più disturbante è sicuramente quello della riserva di uomini-zombie nudi destinati ad essere carne. Letteralmente trattati come Untermenschen, rinchiusi sotto a un pavimento, rappresentano la terza possibilità scabrosa con cui i sopravvissuti si confrontano costantemente: non tanto quella di essere buoni o cattivi, quanto quella di non avere scelta, di essere delle entità private del lusso della morale, pura carne da macello.

Anche in questo caso, The Road tocca uno dei fantasmi più grandi della storia occidentale: non più solo il confronto tra “civiltà” e “barbarie”, ma anche gli orrori dell’uccidibilità dell’uomo emersi nell’Olocausto.

IV. I bambini e l'apocalisse

The Road (2009), 01:43:31
Dead Man's Letters (1986), 01:19:19

I bambini rappresentano la speranza per antonomasia, tuttavia nella distopia il loro ruolo assume un’importanza ancora maggiore.

In Stalker, nel celebre finale, la bambina sembra spostare il bicchiere sul tavolo con la forza del pensiero: le condizioni di vita della sua famiglia non sono migliorate grazie alla Zona, ma si innesta comunque, beffardo, questo potere magico.

La sofferenza dei bambini dà la misura dell’apocalisse. Il figlio del protagonista di The Road piange per la durezza delle condizioni in cui è costretto a vivere, ma il più delle volte si dà da fare come un adulto per assicurare la sopravvivenza di sé e di suo padre. La sua infanzia è un lusso che non può recuperare, una magia ormai andata perduta: anche quando desidera incontrare altri bambini, il padre gli ricorda che sono tutti nemici di tutti e che lui deve comportarsi come un uomo, raccomandazione che coincide principalmente con il saper usare la pistola.


I bambini di Dead Man’s Letters sono più realistici. Hanno visto così tanto orrore che non possono parlare per raccontarlo. Il solo suono che proviene dalle loro bocche sono le urla di quanti sono finiti in ospedale a causa dei bombardamenti.

I più piccoli hanno di sicuro perso la loro infanzia e aiutano i grandi, ma non hanno le stesse responsabilità. Alla fine viene concesso loro di fare un albero di Natale post-apocalittico, con dei rami secchi, ma questo non restituisce a loro la serenità necessaria per parlare.

Le loro parole, le loro lettere di risposta agli uomini morti saranno possibili solo in una nuova umanità, quando, come nella scena finale, i bambini usciranno dal sottosuolo e insieme si faranno strada nel paesaggio ostile.

Dovremmo soffermarci a questo punto sul senso che l’apocalisse ha nei due film di cui vi ho parlato. Attraverso le parole degli anziani, sia in The Road sia in Dead Man’s Letters apprendiamo che l’apocalisse era preannunciata, ma che in nessun modo gli esseri umani sarebbero stati pronti a sopravvivere.

Che si tratti di una guerra o di una catastrofe climatica, l’umanità non può continuare ad esserci se si affida all’egoismo e mantiene gli stessi modelli di crescita non sostenibile che ha adottato nella storia.

Ed è con una certa amarezza che si legge il finale di Dead Man’s Letters, ovvero una citazione dal manifesto Russell-Einstein per il disarmo corredata da un ringraziamento al Comitato di Scienziati sovietici per la Pace contro la Minaccia nucleare.