Due capolavori contemporanei messi a confronto. Come "Everything Everywhere all At Once" e "Inside" rappresentano le nostre ansie e diventano immediatamente dei classici della cinematografia.
Che cosa rende un prodotto culturale iconico? Non tanto piacevole o bello da vedere, ma iconico. Il fatto che riesca a portare alla luce lo spirito del proprio tempo. Il fatto che disveli quella verità, che si trova sulla punta della lingua degli spettatori, dicendola prima ancora che chi partecipa all'opera la abbia razionalizzata. In questo modo, chi si trova davanti all'opera, facendo parte del tempo dell'opera stessa, si accorge che sì, era proprio così, doveva essere detto così e non altrimenti. Allora, qual è il modo più veloce di connettersi in questo modo allo spettatore? Parlando delle sue ansie, delle sue paure. "La più vecchia e potente emozione dell'umanità è la paura..."[1], se un prodotto culturale va quindi a parlare delle paure dell'umanità, sembra quasi scontato che diventi immediatamente un classico. La paura, però, non è intesa come la paura che può trasmettere un film horror, ma come le paure, le ansie sociali che caratterizzano lo spirito del tempo in cui si vive.
Restringendo la conversazione al mondo della cinematografia. Uno dei primi esempi che può saltare all'occhio sono i film ambientati in mondi post apocalittici. Tutta la serie di Mad Max parla, ad esempio, della nostra ansia di una crisi energetica[2]. Come non citare Stalker, capolavoro di Tarkovskij, uscito in piena guerra fredda, i cui paesaggi desolati ricordano l'esito di una guerra nucleare. Le ansie legate alla crisi climatica sono spesso rappresentate in film su grandi disastri, un esempio è Snowpiercer. Il recente risorgimento di film horror a tema zombie parla della percezione di una società del consumo ormai sfuggita al nostro controllo. Senza scomodare la post-apocalisse e tornando un po' indietro nel tempo, troviamo il terrore dell'invasione comunista degli Stati Uniti negli innumerevoli cattivi di nazionalità sovietica che affronta James Bond, oppure nel classico L'invasione degli ultracorpi[3].
C'è però un'ansia in particolare che sta catturando l'immaginario collettivo e perciò sta spopolando al cinema. Si tratta di un'ansia tutta moderna che rende i prodotti cinematografici che la rappresentano immediatamente dei classici: l'ansia legata al consumo spropositato dell'internet e allo smarrimento che ne deriva. Quest'ansia è rappresentata in maniera sublime da due prodotti recenti che sono immediatamente diventati iconici, due manifesti della nostra generazione. Si tratta di Everything Everywhere all At Once, diretto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert[4] e Inside di Bo Burnham[5].
Everything Everywhere all At Once è molte cose. Tutte, sempre, ovunque, qualcuno di ironico suggerirebbe, ma per gli obiettivi di questo articolo limitiamoci ad alcune. Si potrebbe dire che è un film di fantascienza, un film con delle coreografie da musical, un dramma familiare. Il concetto centrale è uno, però: il multiverso. Nonostante non sia un concetto nuovo (deriva infatti da noiosissime teorie quantistiche che non staremo ad esporre), quello del multiverso è un concetto che sta catturando il cinema contemporaneo. Perché siamo così attratti da questo concetto e perché escono almeno un paio di blockbuster all'anno che ne parlano? Il multiverso affascina così tanto perché parla di una sensazione specifica: lo smarrimento derivato dal costante flusso di informazioni che è internet.
I personaggi del film, una famiglia di immigrati cinesi negli Stati Uniti, devono salvare sia la lavanderia a gettoni che gestiscono, sia il loro stesso rapporto. I membri della famiglia sono distanti fra di loro: il marito vuole presentare alla protagonista, Evelyn, le carte di divorzio, mentre la figlia combatte per fare accettare la sua relazione con una ragazza alla madre e al nonno. Come se non bastasse, in mezzo a questa confusione, Evelyn scopre che, viaggiando nel multiverso, può accedere alle abilità di qualsiasi versione alternativa di se stessa. Presto il film si trasforma in un film d'azione. Moglie e marito, che erano tranquillamente andati all'agenzia di riscossione tributi, si trovano a dover scongiurare il tentativo della misteriosa Jobu Tupaki di distruggere l'intero multiverso. Jobu Tupaki è infatti l'unico essere del multiverso in grado di sentire costantemente tutte le sue versioni alternative: tutto, sempre, ovunque. Questo costante flusso di informazioni la rendono, oltre che pericolosa, cinica e nichilista. Se tutto vale allo stesso modo, se in un universo sono una pignatta e in uno ho le dita a salsiccia, se in uno sono la persona più ricca del mondo e in un altro sono una roccia, allora tutto vale nulla, la vita non ha senso. In un momento altissimo del film, cercando di raggiungere lo stesso potere dell'antagonista, Evelyn rompe le barriere delle informazioni che può ricevere dagli altri universi, arrivando a sentire tutto, sempre, ovunque. Ciò non ha l'effetto desiderato: Evelyn scopre, come Jobu, la futilità di ogni cosa. Sarà l'affetto di Waymond, il marito, a ricordarle la lezione opposta: che se tutto può valere, allora è necessario ribaltare il nichilismo, ricordarsi che tutto può valere tutto, sempre, ovunque.
Il parallelismo del multiverso con internet è scontato. Non solo perché nel film l'accesso stesso alle personalità alternitive si ottiene tramite un'applicazione sul telefono, ma anche per le costanti immagini associate a questo accesso. Ogni volta che Evelyn si collega ad una versione alternativa lo schermo si spezza, come una mente che si frantuma, perdendosi in un flusso continuo di informazioni. Jobu Tupaki altro non è che la rappresentazione della derealizzazione associata al costante stimolo del multiverso/internet. Priva di emozioni, fuori dal proprio corpo, Jobu perde la propria identità e sarà Evelyn a doverla ancorare.
Se però Everything è un film leggero, pieno di sentimenti positivi, un "musical d'azione", Inside è un pugno nello stomaco che ci offre poche possibilità di redenzione. Sempre un musical, ma di quelli scritti da un pagliaccio triste. Scritto, recitato e prodotto da Bo (Robert) Burnham, Inside racconta della vita quotidiana del comico e della sua deteriorante salute mentale. Girato interamente all'interno di un piccolo appartamento in piena pandemia, nel lungometraggio si alternano monologhi, riprese claustrofobiche e canzoni comiche (e non). Inside è senza dubbio il manifesto della generazione nata tra gli anni '90: l'onnipresenza di internet e l'utilizzo del cellulare, il costante scherzare sul possedere malattie mentali, la confusione che deriva dal muoversi a cavallo di un periodo storico di grossi cambiamenti... Tutto questo viene rappresentato con canzoni e sketch a volte crudissimi, che hanno sia riferimenti a una cultura in cui siamo immersi, sia uno humor nero dei più sublimi[6].
In particolare, le canzoni interessanti sono due, una successiva all'altra. La prima è "Welcome to the Internet"[7] in cui Burnham ci presenta tutti i meravigliosi vantaggi del web, quasi nei panni di un proprietario di uno spettacolo ambulante.
"Welcome to the internet, have a look around
Anything that brain of yours can think of can be found
We've got mountains of content: some better, some worse
If none of it's of interest to you, you'd be the first"
Al posto di un multiverso, internet diventa un paese dei balocchi dove puoi trovare dai consigli su come fare la carbonara alla guerra in diretta fino alle foto dei piedi delle celebrità. Il web è lì, pensato e fatto apposta per te, pronto a soddisfare ogni curiosità, un modo per impegnare con qualsiasi cosa qualsiasi secondo della propria vita e fruibile in qualsiasi luogo. Tutto, sempre, ovunque.
"Could I interest you in everything, all of the time?
A little bit of everything, all of the time
Apathy's a tragedy and boredom is a crime
Anything and everything, all of the time"
Ma come ogni paese dei balocchi che si rispetti c'è sempre l'inghippo. Verso il finale della canzone infatti (e con una delle risate più agghiaccianti che avrete mai sentito), Burnham si rivela come il cattivo che ha pensato a questo piano malvagio per intrappolarci fin da piccoli con le sbrillucicanti lucine dei telefoni.
Altra canzone potente è "That Funny Feeling"[8], che già con il titolo ci trasmette un senso di malinconia per qualcosa che non sappiamo esattamente identificare e che si perde nel testo della canzone, che elenca, uno dopo l'altro, riferimenti alla cultura pop. Ma quando esce non si riuse a ignorare, sale nel nostro corpo come un'ansia nei confronti di qualcosa che sta finendo.
"Female Colonel Sanders, easy answers, civil war
The whole world at your fingertips, the ocean at your door
The live-action Lion King, the Pepsi Halftime Show
Twenty-thousand years of this, seven more to go"
Ci distraiamo riempendo il nostro tempo con voracità, per non pensare al fatto che quello che abbiamo potremmo perderlo da un momento all'altro. La derealizzazione e il dissociamento che ne deriva non ci piace, ma è l'unico modo per non provare una paura più viscerale, che non ci lascerebbe via di scampo. Questo è il "funny feeling": il sapere che sotto sotto c'è qualcosa che non va e che cerca di sfuggire a tutte le barriere di distrazione che gli abbiamo costruito intorno.
"Total disassociation, fully out your mind
Googling "derealization", hating what you find
That unapparent summer air in early fall
The quiet comprehending of the ending of it all"
Lo spirito di entrambi i film è chiaramente diverso, non c'è dubbio. Ma l'intento è comunque quello di rappresentare il cambiamento radicale che sta avvenendo nella mente di ognuno di noi: la frattura che ci sta allontanando dal reale. Una frattura che possiamo tentare di mantenere a bada o che possiamo curare accorgendoci del valore delle persone e delle cose attorno a noi. Qualunque sia la risposta di ognuno di noi al nichilismo e al nulla che avanza, sicuramente l'arte è un aiuto a disvelare le paure e le ansie che ci accompagnano, per superarle, o almeno per sentirci meno sole e soli. Un film che ci aiuta in questa maniera, allora, non può che non essere un classico.
"... e la paura più vecchia e potente è la paura dell'ignoto." - H.P.Lovecraft ↩︎
Non a caso il quarto film è uscito di recente, nel 2015, diventando subito un classico, dopo che i primi sono usciti a cavallo degli anni '80. ↩︎
Non ci soffermiamo a parlare delle trame di questa carrellata di film, ma neanche se oltre ad essere dei classici sono anche piacevoli da guardare, al lettore l'arduo compito di scoprirlo da sé. ↩︎
I Daniel hanno diretto solo un altro lungometraggio prima di questo film: Swiss Army Man. Prima di sfondare sul grande schermo hanno diretto video musicali, o al massimo corti. Che abbiano iniziato la loro carriera con dei video musicali è una cosa che permea da ogni poro dei loro film. ↩︎
Netflix definisce Inside come uno speciale di stand-up comedy. Nonostante ci siano momenti effettivamente divertenti, non guardatelo sperando che vi sollevi il morale. L'unica cosa che "stand-up" sarete voi, per riprendere fiato, dopo che Bo Burnham vi ha preso a cazzotti nei sentimenti. ↩︎
Humor nero, quindi, che non prende in giro minoranze o vuole fare il ribelle ecco. ↩︎
https://www.youtube.com/watch?v=k1BneeJTDcU&ab_channel=boburnham ↩︎
https://www.youtube.com/watch?v=ObOqq1knVxs&ab_channel=boburnham ↩︎
Comments ()