Un pigmento, da splendido colore, diventa veleno e, come veleno, può aiutare a sfamare le persone. Benjamín Labatut ricostruisce, nel suo romanzo 'Quando abbiamo smesso di capire il mondo', l’intricata vicenda del blu di Prussia e chiama a interrogarsi sulla paradossalità della scienza.
Paradosso letteralmente significa “contro l’opinione”. Si crea un paradosso quando un certo evento o un certo fatto smentiscono e rendono assurde le credenze comuni suscitando stupore, incredulità. Vi è paradosso anche quando si riscontra una stranezza o una stortura contraddittoria fra certe premesse o ipotesi e il loro risultato, i loro risvolti.
La scienza è un processo a catena: da scoperta nasce scoperta, ogni dato ne trascina altri con sé. La sua forza appare inarrestabile. Ciò che inquieta di questo procedere è che esso è incontrollabile, sfugge alle previsioni, prende pieghe inaudite, contraddittorie, paradossali. Molto spesso, l’acquisizione di un dato fa emergere solo più tardi implicazioni impreviste.
Gli esiti paradossali di alcune scoperte scientifiche hanno a che vedere con l’eticità stessa della scienza. Alcuni risultati considerati rivoluzionari per il progresso della conoscenza sono, in realtà, anche dei rompicapi etici spesso insormontabili.
Ciò è emerso ogni qualvolta sono stati scoperti e brevettati un materiale, un composto, una reazione che nei loro futuri utilizzi siano stati impiegati per produrre morte. Un esempio: quando Einstein formulò la teoria della relatività si innescò una catena di studi e ricerche che portarono alla costruzione della bomba atomica, che di fatto è un punto di non ritorno per la specie umana in termini di rischio per l’esistenza. Il senso di colpa per aver generato il presupposto teorico dal quale nacque la più potente arma di distruzione di massa, sul cui accumulo si stavano basando gli equilibri della Guerra fredda, portò lo scienziato a battersi per il disarmo e la pace. Sua è la famosa asserzione: “non so con quali armi verrà combattuta la Terza Guerra Mondiale, ma la quarta verrà combattuta con clave e pietre”.
Della tendenza paradossale e incontrollata della scienza mette in guardia il filosofo Martin Heidegger, il quale, specie dopo i due conflitti mondiali, guarda con preoccupazione l’essenza della tecnica. Se per gli antichi Greci la tecnica somigliava a un fare, ποίησις, un rendere manifesto, cioè un dis-velare legato soprattutto all’artigianato, la tecnica moderna – basata sulle scienze esatte – serba in sé anche una vocazione preponderante a trarre fuori energia dalla natura al fine di accumularla. L’energia accumulata non è un oggetto tangibile, un prodotto maneggiabile ma, per Heidegger, diviene una sorta di “fondo”, appunto uno “sfondo” in cui tutto trova una propria collocazione[1].
La terra, afferma il pensatore, non è più il terreno arato dal contadino che ne ha cura, che ne rispetta i ritmi intrinseci; essa “si disvela ora come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali”. Anche la coltivazione dei campi "è stata presa nel vortice di un diverso tipo di coltivazione [...] L'agricoltura è diventata industria meccanizzata dell'alimentazione. L'aria è richiesta per la fornitura di azoto, il suolo per la fornitura di minerali, il minerale ad esempio per la fornitura di uranio, l'uranio per l'energia atomica, la quale può essere utilizzata sia per la distruzione sia per usi di pace"[2].
Dalla natura si attinge, la natura viene provocata, e da questa provocazione nasce l’energia da cui deriva tutto e il contrario di tutto.
Il fatto di aver parlato di azoto estratto dall’aria, da cui viene prodotto un fertilizzante per le coltivazioni, mostra come forse Heidegger potesse conoscere la vicenda attorno allo scienziato – che si chiamava Fritz Haber – artefice di questa scoperta, sicuramente aveva intuito la portata storica della sua invenzione.
Haber è uno dei personaggi che abitano il primo capitolo del romanzo di Benjamín Labatut Quando abbiamo smesso di capire il mondo. Il libro ricostruisce, in modo verosimile, le vicende che hanno caratterizzato alcune scoperte scientifiche rilevanti dei secoli scorsi, e le vite dei loro responsabili. Nello specifico, il primo capitolo è il racconto di un colore, di un pigmento rivoluzionario che diventa anche racconto di un veleno, di un fertilizzante, e di uno strumento di morte.
È la microstoria del blu di Prussia, di una serie di paradossi scientifici, e di un colore bellissimo[3].
PARADOSSO 1 – Da rosso a blu
Il blu di Prussia nasce per caso. Nel 1706, a Berlino, Johann Jacob Diesbach cercava disperatamente di riprodurre il rosso carminio e di fare fortuna. Era un fabbricante svizzero di pigmenti e ben sapeva che, per ottenere quel particolare rosso, occorrevano milioni di esemplari femmina di Dactylopius Coccus, meglio conosciuta come cocciniglia. I corpi di questi minuscoli e delicati insetti venivano triturati e lasciati essiccare fino ad ottenere un pregiato estratto, pregiato e per ciò costoso. A questo si aggiungeva allume, solfato di ferro e sale di potassio. Diesbach a quel tempo lavorava nella bottega di Johann Konrad Dippel, teologo e alchimista, un’enigmatica e singolare figura destinata ad impersonare lo scienziato pazzo. Nato nel Castello di Frankenstein cercava, a quel tempo, l’elisir di lunga vita[4].
A questo scopo distillava un olio a partire da materiale animale, tra cui sangue, corna, pelle. Un giorno Diesbach, non avendo più potassio a disposizione, utilizzò l’olio di Dippel – contenente sale di potassio contaminato con sangue – con il precipitato di cocciniglia. Se la miscela fosse risultata corretta nelle sue proporzioni, egli avrebbe avuto tra le mani il rosso che aveva arricchito monarchie e nobiltà e che serviva a rappresentarne il rango e il prestigio.
Il composto si rivelò tutt’altro che rosso sgargiante, piuttosto di un blu profondo e misterioso. Diesbach decise comunque di dargli un nome. Lo chiamò blu di Prussia, e cercò di fare fortuna con questo: non esisteva in natura, era bello e poteva competere con l’oltremare, il pigmento ottenuto macinando nientemeno che lapislazzuli e scelto per decorare le figure più sante del paradiso. Prima provò con Dippel, ma Dippel, come si diceva, era una figura controversa. Fu presto incarcerato per le sue idee religiose, in seguito lasciò la Germania. Allora si rivolse ad un certo Johann Leonhard Frisch, e questa volta riuscì nel suo intento, mantenendo la ricetta segreta e perciò il suo monopolio per un certo periodo. Solo nel 1720 iniziarono a circolare le prime formule per riprodurre questo blu nuovo e così profondo.
Piacque così tanto da essere immediatamente impiegato in pittura, come alternativa agli altri toni di blu, costituendo addirittura lo sfondo della Notte Stellata di V. Van Gogh[5].
Vincent Van Gogh, Notte stellata, 1889, Museum of Modern Art di New York
PARADOSSO 2 – Veleno
Hermann Göring si suicidò ingoiando la capsula di cianuro che aveva conservato in un flacone di pomata per capelli, prima di essere giustiziato per conto del tribunale di Norimberga per crimini contro l’umanità. Labatut ci racconta che, quando le cose cominciarono a mettersi male per il Terzo Reich, Hitler iniziò a distribuire agli alti ufficiali delle capsule che avrebbero permesso loro di disporre della propria vita, e della propria morte nel caso della sconfitta, se fossero finiti nelle mani dei nemici Alleati. Lui stesso, si presume, si uccise in questo modo.
Il cianuro è un veleno potentissimo, ha un effetto istantaneo che porta direttamente all’arresto respiratorio, e quindi alla morte. Il cianuro è fatto col blu di Prussia. Né Diesbach né Dippel potevano prevedere che dal loro blu sarebbe nato un acido capace di uccidere chiunque in modo fulmineo. Fu scoperto, anche questo per caso, nel 1782, quando il chimico Carl Wilhelm Scheele mescolò quello stesso pigmento con un cucchiaino sporco di acido solforico. Lo chiamò acido prussico proprio per ricordare la sua derivazione dal colore, senza sapere che la sua naturale reazione, una volta entrato in circolo nel corpo, è quella di rendere il sangue venoso, solitamente scuro quasi blu, di un rosso particolarmente sgargiante.
Notizia della morte di Hermann Göring, archivio del Corriere della Sera, 1946
PARADOSSO 3 – Pane e sterminio
Fritz Haber, chimico tedesco di origine ebraica, vinse il premio Nobel nel 1918. Aveva individuato, circa dieci anni prima, il processo di sintesi dell’ammoniaca a partire dall’idrogeno e dall’azoto. Grazie a Carl Bosch, chimico, ingegnere e imprenditore, il processo fu commercializzato; da allora tutti lo conoscono come processo Haber-Bosh e l’ammoniaca ottenuta fu impiegata nella produzione di fertilizzanti azotati. Questo impiego significò molto per la crescita e il welfare della Germania imperiale: ottenere un fertilizzante sostanzialmente impiegando l’aria (idrogeno e azoto) permetteva infatti di produrre più cibo – facendo crescere le piante senza intoppi – , riuscire a nutrire la maggioranza della popolazione scongiurando carestie o penurie e innalzare perciò il livello di salute della stessa. Haber fu ricordato per questo come lo scienziato che “fece il pane con l’aria” e la sua scoperta gli valse la gloria perché, in un momento in cui le nazioni si rafforzavano e avevano bisogno di maggior forza lavoro, avere “pane” era una questione fondamentale. Soprattutto lo fu quando, in guerra, a causa del blocco navale alla Germania, non si potevano importare cereali via mare.
Tuttavia, quando il nome di Haber risuonò in Svezia, lo scienziato non se la passava esattamente bene. Fu giudicato criminale di guerra dall’Intesa per lo stesso motivo per il quale sua moglie si era tolta la vita: sotto la sua supervisione furono approntati gas tossici e letali da utilizzare come arma di massa e condusse personalmente la preparazione dell’attacco di Ypres che annientò completamente - grazie al gas cloro - le truppe algerine e francesi. La battaglia di Ypres divenne l’episodio emblematico della spietatezza dei gas tossici. Il gas cloro divenne iprite, la costante di Haber iniziò ad indicare la dose minima di gas letale per l’uomo e la moglie dello scienziato si suicidò, accusandolo di aver creato un metodo di sterminio e di aver corrotto la scienza.
Haber credeva davvero nella nazione tedesca, partecipò volontariamente alla Grande guerra, voleva e sapeva di stare creando un gas tossico letale giustificandolo come mezzo necessario alla vittoria della Germania. Il suo patriottismo non fu tradito nemmeno dalla morte della moglie e, nonostante il dolore per la perdita e per le parole durissime che ella gli aveva rivolto prima di spararsi, non avrebbe mai rinunciato alla ricerca.
Dopo essere fuggito in Svizzera tornò in Germania promettendosi di ricostruire la Repubblica di Weimar. Inizialmente provò ad estrarre oro dalle onde del mare ma si accorse di aver sovrastimato la quantità di metallo presente in acqua. Tuttavia, i suoi progetti patriottici non si fermarono: divenne direttore dell’Istituto del Kaiser Wilhelm per la fisica e iniziò ad inventare pesticidi in grado di garantire condizioni igieniche migliori per la sua nazione. Come lo Zyklon
– tradotto “ciclone”– un agente fumigante, un insetticida cianogenetico, cioè derivante dal cianuro. La letalità del suo impiego varia a seconda della concentrazione: esistono l’A, B, C, D, E, F. L’A e il D sono adatti come insetticidi: lo stesso Haber condusse, grazie alla sua nuova scoperta, una personale battaglia contro le tarme della farina – dopotutto era lo "scienziato del pane". In seguito fondò un Comitato per il controllo dei parassiti impegnandosi a debellare ratti e scarafaggi per il bene patrio.
Lo Zyklon B è invece riservato all’uomo; inizialmente usato contro i pidocchi fu impiegato nelle camere a gas costruite per sterminare il popolo ebraico durante la dittatura di Adolf Hitler. Quando l’insetticida si spargeva nell’aria, non solo uccideva fra atroci pene tutti i condannati ma impregnava anche i muri della camera di morte di un bellissimo blu, il blu del cianuro, il blu di Prussia.
Camera a gas, campo di concetramento e sterminio di Auschwitz, Polonia
Si potrebbe chiamare “uno strano scherzo del destino” quello per cui un ebreo, patriota, teso a far parte della nazione tedesca e spezzare quella linea di non integrazione imputata ai cittadini ebrei, creò il gas usato per uccidere uomini della sua stessa appartenenza. Più correttamente si tratta di un paradosso, così come paradossale è che quell’errore di Diesbach, il blu che ottenne al posto del rosso, sia finito a colorare le camere a gas dei campi di concentramento della Seconda guerra mondiale. E questa cascata di paradossi, innescata dal blu di Prussia, che colora i veli delle Madonne dei pittori settecenteschi e uccide le persone se trasformato in veleno, non è altro che lo strano modo di funzionare della scienza.
Martin Hedegger,* La questione della tecnica*, in Saggi e Discorsi, a.c. di G. Vattimo, pp.5-27, Mursia, Milano 1991, p.14. ↩︎
Ivi, p.11. ↩︎
Benjamín Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Adelphi, Milano 2021. ↩︎
Si pensa che abbia ispirato il romanzo Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Schelley (1818). ↩︎
https://www.doc.mode.unibo.it/sale-bianche/il-blu-di-prussia-nellarte Si rimanda a questo link per osservare alcune delle opere realizzate con il blu di Prussia. E a quest'altro per approfondire meglio la composizione chimica del pigmento https://link.springer.com/article/10.1007/s40828-018-0071-2 ↩︎
Comments ()