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#2 Mente: Facio ergo cogito

Che rapporto c'è tra mente e linguaggio? La mente ha nel linguaggio il solo compito di scegliere il modo in cui esprimere ciò che già esiste come nostro pensiero? Come funziona il mondo?

Avvertenza: il presente articolo contiene "cosi"[1].

Battuta:

Menomale che sono nato in Italia perché io il tedesco non lo so parlare e in Germania non sarei mai potuto nascere!

Tenete a mente quest'arguzia perché anche se non fa molto ridere ci servirà per capire la questione che vi propongo in questo articolo, suscitata da uno spunto wittgensteiniano.

Che cosa accade quando ci sforziamo - per esempio scrivendo una lettera - di trovare l'espressione giusta per i nostri pensieri? - Questo modo di dire confronta questo processo con quello di una traduzione o di una descrizione: i pensieri sono lì (magari già da prima) e noi cerchiamo soltanto la loro espressione.[2]

Questo discorso in effetti sembra molto pertinente: esistono prima i pensieri nella nostra mente e poi la forma che scegliamo di attribuire loro. Decidiamo se scriverli o pronunciarli nella nostra lingua o in un'altra, se rappresentarli attraverso un disegno o mimarli con il corpo come si fa al gioco del mimo, e via dicendo. C'è un dentro, la nostra mente, e c'è un fuori, il mondo popolato dalle altre cose e le altre persone. Solo io posso sapere cosa c'è al mio interno, solo io sono padrone dei miei pensieri, solo io sono il re che siede sul trono della mia mente.

Ebbene, sentendo tali espressioni il buon vecchio Wittgenstein vi prenderebbe a sberle! Anzi, vi farebbe prendere a sberle da voi stessi, come fanno i bravi filosofi.

Iniziamo col chiederci cosa sia un pensiero.
Il vocabolario Treccani recita:

La facoltà del pensare, cioè l’attività psichica mediante la quale l’uomo acquista coscienza di sé e della realtà che considera come esterna a sé stesso.[3]

Abbiamo detto tutto e nulla. In modo neanche tanto soddisfacente, abbiamo solamente spiegato che cosa il pensiero faccia, ma la coscienza di sè e la realtà che consideriamo a noi esterna che cosa sono, se non pensieri? Sarebbe come dire che il pensiero è ciò che ci permette di produrre pensieri.
Ma come accade ciò?

Fin dalla psicologia comportamentista di John Watson, la mente è considerata come un concetto-toppa, ovvero come una sorta di black box in cui gli stimoli esterni entrano, subiscono qualcosa ed escono modificati. L'idea è proprio quella di una scatola nera in cui entrano input e da cui escono output diversi, meccanismo alla base del famoso modello stimolo-risposta. Che cosa accada lì dentro solo Dio lo sa.

Tutti i manuali di psicologia, giustamente, iniziano con un excursus di storia delle idee su Platone e Cartesio. Platone viene rievocato per l'invenzione dell'anima (pro-pro-pro-zia della mente) e Cartesio per aver diviso la realtà in due: la realtà interiore e la realtà esteriore, ovvero le famose res cogitans (mente) e res extensa (mondo fisico).
Cartesio non fu il primo a dividere il dentro dal fuori, e alcuni studiosi in verità sostengono non lo fece affatto, ma i cartesiani (ovvero i suoi successori), da cui Cartesio stesso prese le distanze, consegnarono definitivamente alla modernità questa separazione.

Al di là della paternità di questa concezione dualista, ha senso chiederci: a che pro complicarci la vita, sdoppiando la realtà? Ebbene, il motivo è di differenziare cose che si comportano in modo diverso per trattarle in modo diverso: in passato si pensava che l'interiorità fosse libera e senza regole, mentre l'esteriorità fosse regolata da leggi ferree e precise. In altre parole, davanti ad un dipinto Tizio, Caia e Semproniə fanno pensieri diversi, ma se il chiodo che tiene il quadro cede, allora il quadro può precipitare in una sola direzione; così è e non può che essere così.

Questa impostazione si basa su un aspetto che può apparire scontato, ma che in realtà non lo è affatto: l'esistenza degli oggetti fisici, nello specifico l'esistenza degli oggetti fisici in sè, ovvero a prescindere da chi li osserva, tradotto nell'ambito del linguaggio nel modello oggetto-designazione. Molto semplicemente, gli oggetti sono già stabilmente al loro posto e noi dobbiamo solo concordare su come chiamarli. L'albero esiste di per sè nella realtà esterna, siamo noi a decidere se chiamarlo tree, albero, arbulu; tre segni diversi per lo stesso significato, tre pensieri diversi per la stessa cosa.

In questo senso la mente produce semplicemente il modo in cui esprimere le cose che esistono, sceglie il giudizio da appiccicare come un'etichetta alle cose.

E qui arriva la sberla di Wittgenstein! - per un dovere di cronaca, sappiate che Wittgenstein stesso ricevette questa sberla da un italiano, tale Piero Sraffa, un economista, gente pratica!
Ovviamente stiamo parlando di una sberla teorica: Sraffa chiese al nostro filosofo a quale oggetto si riferisse il gesto (ovvero l'espressione di un pensiero) tipicamente “napoletano e siciliano” che consiste nel passarsi le dita di una mano sotto il mento per esprimere rifiuto, disaccordo e/o disinteresse.

In quel momento Wittgenstei vide andare in frantumi il modello oggetto-designazione; non esiste, infatti, un oggetto che questo gesto designi o rappresenti. Ma in questo caso dobbiamo ammettere che il pensiero non riesce ad attaccarsi ad alcun oggetto del mondo?

Ebbene, Wittgenstein ci dice che il linguaggio non funziona così, e per mostrarcelo mina la base del senso comune: gli oggetti non esistono, o meglio, non ci serve che esistano per capire come il nostro linguaggio funzioni.
E il pensiero prima del linguaggio?
Ebbene, per spiegare il linguaggio non ci serve neanche la mente, poichè in effetti potremmo benissimo spiegare ciò che noi riteniamo essere la funzione della mente, ovvero il pensiero, senza la mente.

Che cos'è allora il pensiero che non ha bisogno della mente per esistere? Ovvero, che cos'è il pensiero non interno?
Rullo di tamburi...
Il pensiero altro non è che il nostro fare delle cose all'interno di un uso stabile.

Calmi, calmi. Adesso cerchiamo di vernirne a capo.
Abbiamo detto che per il modello oggetto-designazione la mente ha il compito di pensare internamente quale espressione (ovvero quale segno) appiccicare alle cose che esistono a prescindere da come le chiamiamo. Ebbene,

Questo caso è simile quello in cui qualcuno immagina che non sia possibile pensare una proposizione, semplicemente così com'è nella strana costruzione della lingua tedesca o latina, ma sia necessario, prima, pensare la proposizione, e poi disporre le parole in quel modo curioso. (Un uomo politico francese scrisse una volta che è una epculiarità della lingua francese che le parole siano collocate nello stesso ordine in cui vengono pensate).[4]

Ma non avevo già inteso la forma complessiva della proposizione fin dal suo inizio? Dunque era già nella mia mente ancor prima di essere enunciata! Ma qui ci costruiamo, di nuovo, un’immagine fuorviante di ‘avere l’intenzione’. L’intenzione è collocata nella situazione, nelle abitudini e nelle istituzioni umane. Se non ci fosse la tecnica del gioco degli scacchi, non potrei avere l’intenzione di giocare a scacchi. L’intendere una proposizione ancor prima di enunciarla è reso possibile dal fatto che sono capace di parlare la mia lingua.[5]

Non è vero che prima pensiamo una cosa nella nostra mente, e che quindi prima esistano il significato e l'oggetto esterno a cui il significato è legato, e che solo in un secondo momento creiamo il linguaggio per esprimere quel pensiero interno, per esprimere quel significato, per chiamare (o denotare) quell'oggetto. È esattamente l'opposto: prima esiste il linguaggio, ovvero un uso stabile, una cultura, quella che Wittgenstein direbbe una "forma di vita", e poi questo linguaggio e questo uso stabile danno forma ai nostri pensieri, permettendoci di attribuire a delle esperienze dei significati che noi successivamente consideriamo come oggetti.

Per tornare all'albero, può anche darsi che quell'affare legnoso, a prescindere da noi, esista come anche non esista[6], ma finchè non entra all'interno della nostra forma di vita e del nostro linguaggio quel coso indefinibile resterà fuori dal nostro mondo. Deve diventare un three, un albero, n'arbulu per esistere nel nostro mondo. Ma cosa significa "esistere nel nostro mondo"?

Vi sono numerose ricerche scientifiche che dimostrano come il nostro linguaggio influenzi direttamente addirittura la nostra percezione sensibile. Tra queste è famosa la ricerca dello psicologo Jules Davidoff, il quale mise in atto numerosi esperimenti per indagare il rapporto tra linguaggio e percezione dei colori, interrogando la triù Himba in Namibia. Ovviamente gli occhi di questa popolazione funzionano fisiologicamente allo stesso modo dei nostri, eppure lo studio dimostrò che di fronte a 12 quadrati disposti in circolo, di cui 11 verdi e 1 blu, questi individui non riuscirono a indicare il quadrato dal colore differente.

Al contrario, posti di fronte a 12 quadrati di cui 11 verdi e 1 di un verde appena differente, tanto da essere indistinguibile per la maggior parte degli occidentali, gli Himba risultarono immediatamente in grado di distinguere il cambiamento.

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Il punto messo in evidenza da questo studio è che il senso della vista di questa popolazione funziona come il nostro, ma il loro linguaggio non ha una parola per indicare il blu; pertanto il blu non fa parte del loro mondo ed essi non hanno nulla di stabile nella loro cultura riferito a quell'elemento che noi chiamiamo blu, o quanto meno nulla di diverso rispetto a ciò che fanno col verde.

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Ovvimente in questo caso la differenza di forme di vita è lampante ma non occorre andare così lontano per trovare tali sfumature; a questo proposito, riprendiamo ora il nostro solito albero.
Quando diciamo albero non stiamo solo indicando un oggetto ma stiamo anche comunicando tutto ciò che possiamo fare con quel coso. Fondamentale è la prima persona plurale; infatti ho scritto: "possiamo fare" e non "si può fare". Se abbiamo detto che gli oggetti di per sè, ovvero isoltati da un contesto, non esistono, allora è giusto usare la prima persona plurale, perché in base al variare di questa comunità varierà anche il significato. Infatti, se siamo ecologisti che quel coso è un coso da difendere e di cui prendersi cura, se siamo boscaioli infreddoliti che quel coso è un coso da tagliare e bruciare, se siamo costruttori quel coso è un coso da trasformare in assi, e via dicendo.

Se una comunità pone un significato all'interno di un uso stabile, quando qualcuno usa quel significato, usa anche tutte le possibili istruzioni che quel coso ha per quella comunità.
Dire mogano o pioppo ad un cane non fa differenza, perché il cane ci fa le stesse cose, vi riporterà un rametto di pioppo esattamente come vi riporterà un rametto di ebano.
Per un falegname, invece, il pioppo è quanto di più diverso possa esistere dall'ebano; il primo è durissimo e per il falegname significa ore e giorni di fatica, mentre il secondo è tra i più morbidi e per il falegname significa una passeggiata.

Ricordate la battuta con cui abbiamo iniziato?

Menomale che sono nato in Italia perché io il tedesco non lo so parlare e in Germania non sarei mai potuto nascere!

La battuta fa ridere proprio perché è assurdo pensare che viviamo in un mondo neutrale, oggettivo (cioè pieno di oggetti che esistono a prescindere da noi e che sono conoscibili in quanto tali) e che successivamente decidiamo col pensiero o con la mente come chiamare questi oggetti. Non è che prima pensiamo, operando con la mente muta, e poi impariamo una lingua per esprimere ciò che abbiamo pensato e per portare fuori ciò che abbiamo dentro. Tutto il nostro mondo è la nostra forma di vita, la nostra cultura, il nostro linguaggio.

Persino i nostri sentimenti, la cosa più intima che possiamo considerare di noi stessi, li impariamo dal nostro contesto. Quando soffriamo per una relazione finita, quando siamo contenti perché ci stiamo gustando il nostro piatto preferito, ebbene, lì ha già agito il nostro linguaggio, inteso sempre come la nostra cultura e la nostra forma di vita.

Possiamo dunque concludere che non esiste qualcosa di completamente separato da ogni lunguaggio - come diceva Gorgia, il grande sofista, se esiste non è pensabile, ma con Wittgenstein, non è neanche dicibile e non esiste.

I limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio.[7]


  1. Il termine "coso" è un termine filosofico di mia invenzione che indica un coso, per l'appunto, di completamente indefinito e indefinibile (da qui la circolarità della definizione). Immaginare una cosa è possibile (potete immaginare una macchina, un albero e via dicendo. Immaginare un coso è impossibile. ↩︎

  2. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 335. ↩︎

  3. https://www.treccani.it/vocabolario/pensiero/ ↩︎

  4. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 336. ↩︎

  5. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 337. ↩︎

  6. Per approfondire questo aspetto rimando al precedente articolo sulla mente di Francesca Schiesari: #1 La mente: 1899, o Platone sul Titanic. ↩︎

  7. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 5.6. ↩︎


Per approfondire:

#1 La mente: 1899, o Platone sul Titanic
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