arrow_upward

L’arte del senso di colpa

Il senso di colpa analizzato attraverso lo sguardo di registi, scrittori e cantanti. Un breve viaggio per raggiungere un significato più completo e trasversale del sentimento più irrisolto dell’essere umano.

Il senso di colpa, come suggerisce il termine, è un sentimento umano legato alla colpa, cioè al risultato di un’azione o di un'omissione che identifica chi è colpevole, reale o presunto, di trasgressioni a regole morali, religiose o giuridiche. Più nel concreto, possiamo dire che esso si manifesta in coloro che lo vivono come una riprovazione verso sé stessi.
Nella maggior parte dei casi, la prima sensazione che proviamo con riferimento alla colpa è quella di alienazione dall’atto, dall'atto mancato, ovvero dall’effetto che l’azione o la mancata azione ha determinato. In sostanza, è come se la nostra coscienza decidesse che ciò che abbiamo fatto non ci appartiene, e quindi ci porta a voler fare qualcosa per rimediare, talvolta migliorando il nostro agire, altre volte caricandoci di un fardello che ci immobilizza, impedendoci di svolgere altre azioni.
Si tratta di una delle emozioni più complesse e pervasive della esperienza umana, capace talvolta di persuaderci a compiere azioni che altrimenti non faremmo. Basti pensare che, soprattutto in passato, era considerato uno strumento efficacissimo per l’educazione dei giovani, o meglio per l’interiorizzazione di prescrizioni educative e comportamenti socialmente accettati. In poche parole, possiamo dire che tutti noi ne siamo stati oggetto e soggetto, succubi di esso almeno una volta nella vita.
Dato il “successo” del senso di colpa, sia per quanto riguarda la sua universalità rilevata sia riguardo al suo carattere persuasivo e pervasivo, esso è stato più volte descritto e analizzato in letteratura, ma anche nel cinema e attraverso la musica.
Soffermandoci sulla settima arte, tra le numerose e rimarchevole opere che affrontano il tema del senso di colpa, molte sono quelle riconducibili ad un maestro assoluto quale è Alfred Hitchcock. Questo suo portare in scena il senso di colpa sembra avere origine nella sua infanzia, come confesserà a Truffaut: “Probabilmente è stato durante il periodo passato dai Gesuiti che il sentimento della paura si è sviluppato con forza dentro di me. Paura morale, come di essere associato a tutto ciò che è male” (Truffaut, 1981; p.23). Ancora una volta, quindi, il senso di colpa diviene uno strumento di educazione efficace e potente. Tra le opere di Hitchcock dove viene descritto meglio e più profondamente questo sentimento dobbiamo sicuramente soffermarci su “La donna che visse due volte”. Protagonista della pellicola è il detective Scotty Ferguson, il quale, durante un inseguimento nelle scene iniziali, scivola e si aggrappa a una grondaia. Per salvarlo, un suo collega precipita e muore. In seguito a quest’evento, Ferguson – vittima delle sopraggiunte crisi di acrofobia – lascia la polizia. Viene quindi contattato da un suo vecchio compagno di università, il quale gli chiede di seguire la moglie Madeleine vittima a suo dire di dissociazione psichica. Questa infatti assume gli atteggiamenti di una sua antenata, Carlotta Valdes, e il timore dell’uomo è quello che essa possa emulare la fine suicida della Valdes. Scotty accetta di aiutarlo e comincia a seguirla. Durante un pedinamento la salva da un annegamento (la donna si getta nella baia della città) e per via del momento intimo che vivono, la conosce e se ne innamora.
Cerca disperatamente di aiutarla, spiegandole che le sue visioni sono reali e cercando di condurla nei luoghi che lei crede solo di aver sognato. La porta lì, le dice di non aver sognato la missione, prova a convincerla del fatto che ci era semplicemente già stata, ma la ragazza non gli crede e prima di un bacio appassionato, gli confessa che in qualunque modo finisca avrebbe voluto amarlo. Infine, scappa sulla torre campanaria del villaggio, lui prova a inseguirla sulle scale, ma per via della vertigine non riesce nel suo intento e si limita ad essere spettatore inerme della sua caduta.
Dopo la morte di Madeleine, Scotty si getta nello sconforto. Il forte senso di colpa per non essere riuscito a superare la sua fobia e non aver salvato l’amata lo getta in un mutismo malinconico, tanto da dover essere poi ricoverato in una clinica psichiatrica. La bellissima scena che ne chiarifica il meccanismo psicologico si trova nel sogno che fa Scotty, girato magistralmente e che sembra portarci nel turbinio angosciato della mente del protagonista, nel suo inconscio, nella sua non rassegnazione.
Non può elaborare questo lutto se non con la sua diretta responsabilità. Riuscirà a metabolizzare il fatto, ma ne rimarrà succube a tal punto che, una volta uscito, andrà in giro perseguendo continuamente i luoghi che gli ricordano la donna, cercandola irrazionalmente tra la folla.
Un giorno però vede una giovane identica a Madeleine, quasi fosse uno scherzo del destino. La segue, la corteggia, ma smaschera le sue motivazioni. È attratto da lei, ma solo perché ha il suo viso, l’amerà solo se accetterà di trasformarsi nella defunta donna amata. Lei dapprima è titubante, non vuole. Di lì a poco si scoprirà però che Judy è realmente Madeleine e che a quanto pare interpretò su commissione la moglie del vecchio amico, che aveva pianificato il tutto per sbarazzarsi della moglie e prenderne l’eredità. Lei ama Scotty e quindi lo asseconda. La trasformazione va avanti, lei sta al gioco, ma per un errore sciocco (indosserà un gioiello che poteva appartenere solo a Madeline) lui scopre l’inganno. In preda alla rabbia, la conduce sul luogo del delitto, vuole capire come i fatti si siano svolti, vince il senso di vertigine e giunge in cima al campanile. La tensione è alta ma con un colpo di scena inaspettato, a causa dell’ombra di una suora che compare davanti a loro, Judy/Madeleine si getta nel vuoto, morendo (per davvero questa volta).
Analizzando il film, risultano evidenti le diverse declinazioni del senso di colpa che l’autore riesce a rappresentare. Quello del protagonista per la morte del collega, quello per l’incapacità di evitare la morte della donna amata, seppur inscenata, e infine quello di quest’ultima, pentita di aver mentito all’uomo di cui poi si è innamorata.
Altra interessante rappresentazione del senso di colpa può essere rinvenuta in “Mystic River” di Clint Eastwood, in cui un segreto risalente all’infanzia si lega ad un istinto di giustizia che non può che rivelarsi autodistruttivo. Il personaggio magistralmente interpretato da Sean Penn è il simbolo di un senso di colpa che si ignora ed inevitabilmente si paga, che inghiotte la collettività, e che porta a conseguenze catastrofiche.
Continuando ad analizzare come viene raccontato il senso di colpa nel cinema, un’altra pellicola che affronta profondamente il tema in questione è “Shutter Island” (2010) di Martin Scorsese. Qui il protagonista, interpretato da un ispirato Leonardo Di Caprio, vive in una realtà parzializzante a causa di un senso di colpa legato ad avvenimenti che solo alla fine della pellicola si manifesteranno in tutta la loro tragicità. Questi gli fanno preferire il convincimento della sua instabilità mentale, piuttosto che l’evasione dalla prigione della mente. Un personale inferno nel quale confinare le proprie debolezze, nel quale trovare riparo, dalla realtà inaccettabile ed invincibile.
Se il cinema lo narra con le immagini e le storie dei suoi protagonisti, la musica invece lo restituisce con qualche cosa di più profondo, con la voce, il suo suono che emerge da un'anima dopo l'altra. “Preghiera in Gennaio” di Fabrizio De André, è un’esempio lampante di come la musica talvolta esplori il concetto di rimorso, e come la nostra società tenti in effetti di far pesare, in maniera ancora più grave, colpe grandi su chi è giá vittima del dolore.
In modo analogo, un altro brano che ritengo esemplifichi quanto già detto è “Somebody That I Used to Know” di Gotye, il quale racconta un senso di colpa reciproco tra i due protagonisti di fronte alla fine del loro rapporto; come se per l’uno, o per l’altra, il rimorso rappresentasse un tormento da evitare ad ogni costo.
Sigmund Freud dice che la coscienza di colpa nasce dal conflitto tra Superego e desideri personali, cioè fra ciò che vorremmo essere e ciò che ci è stato impedito di essere. Ed è proprio in questo dualismo che l’arte trova lo spunto per trasformare il tormento interiore in espressione.
Il senso di colpa può quindi diventare ora un ostacolo, ora una spinta verso il cambiamento. Se ci blocca diventa una prigione, se invece ci induce a rimediare ai nostri errori, può trasformarsi in guida morale. Le storie, le canzoni e i film che lo raccontano ci ricordano che prima o poi ci ritroveremo sempre a fare i conti con i nostri rimorsi. Ma come canta Leonard Cohen in “Anthem”: c’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce.